ATTACCO - Proseguono i bombardamenti, mentre anche le donne sono in armi. I pozzi petroliferi fra gli obiettivi.

Quel “ramoscello d’ulivo” della Turchia: bombe sul Kurdistan, a partire da Afrin

Per il governo di Ankara si tratta di “tutelare” i confini dello stato da organizzazioni terroristiche. In realtà gli obiettivi economici sono molto chiari: in quella regione ci sono petrolio e acqua

Si chiama “ramoscello d’ulivo” ed è l’operazione militare con la quale il governo turco di Ankara sta bombardando il nord della Siria, e più precisamente la zona di Afrin, dallo scorso 21 gennaio. Gli attacchi sono ripresi con particolare insistenza in questi giorni. L’intenzione dell’esercito turco è di spingere le milizie curde a est dell’Eufrate.

Ebbene sì, “ramoscello d’ulivo”. Farebbe quasi sorridere se non fosse che un simbolo di pace universale viene strumentalizzato per seminare il terrore e legittimare un’offensiva che nasconde obiettivi economici ben precisi.

Secondo il presidente turco Recep Tayyip Erdogan l’azione militare sarebbe necessaria al fine di tutelare i confini dello Stato dalle attività di quella che definisce un’organizzazione terroristica e che in realtà altro non è che l’unità di Protezione Popolare Curda, YPG, colpevoli, sempre secondo il sultanato di Ankara, di essere in contatto con il PKK, movimento separatista curdo con cui la Turchia è in guerra da più di trent’anni. Si parla ormai di più di mille morti tra civili e combattenti curdi, contro le poche decine di caduti nel fronte opposto. Dopo i raid aerei e i costanti bombardamenti che hanno portato alla distruzione di 108 obiettivi militari, la Turchia ha quasi da subito avviato un’operazione via terra forte dell’appoggio dell’Esercito Libero Siriano. Intanto, mentre il ministri degli esteri turco Mevlut Cavosoglu si vantava di aver iniziato una sostanziale riconquista dei villaggi del Kurdistan, tiepide sono arrivate le prime manifestazioni di dissenso, prima dal Partito Democratico dei Popoli turco, HDP, che scendendo in piazza è andato incontro a rastrellamenti e feroci arresti da parte della polizia governativa, poi dal governo siriano di Bashar al-Assad e infine dalla Francia, che sul territorio millanta una qualche autorità dai tempi degli accordi di Sykes-Picot.

I deboli appelli di Francia e Stati Uniti

“Le forze combattenti curde sono dalla parte della coalizione internazionale nella lotta contro il terrorismo dell’ISIS”, ha sostenuto il ministro francese delle forze armate Florence Parly. “L’attacco di Ankara deve arrestarsi subito”. Insomma, non importa se centinaia di civili curdi tra Afrin, Idlib e Gohuta stanno morendo sotto i bombardamenti, o meglio, è importante ma mai quanto lo sia il fatto che i loro combattenti restino a vigilare sull’avanzata delle forze jihadiste. Ancora più debole, e perfino disarmante, appare l’appello di Washington che si è limitato a chiedere moderazione da parte della Turchia e che le azioni militari vengono circoscritte nei confronti dei guerriglieri curdi lasciando estromessi i civili dalla vicenda.

Ma di preciso, di che parte del Medio Oriente stiamo parlando? Il Sistema Federale Democratico della Siria del Nord, noto anche come Kurdistan siriano o semplicemente Rojava, è una regione semiautonoma del nord-nord est della Siria mai effettivamente riconosciuta dal governo di Damasco. In seguito alla guerra civile del 2012 l’area è stata presa sotto controllo dalle milizie curde del YPG decretando de facto la nascita di quella che dai nazionalisti curdi è considerata una delle quattro parti del Kurdistan in terre straniere (Turchia, Siria, Iraq e Iran). L’intento del neonato Partito dell’Unione Democratica, PYD, a capo del Comitato Supremo Curdo, DBK, era quello di costruire un confederalismo democratico multietnico ispirandosi al socialismo libertario promosso dal filosofo anarchico Murray Bookchin. Con il Contratto Sociale del Rojava, promulgato il 20 gennaio 2014, si cercò di instaurare una repubblica parlamentare fondata sul pluralismo e il decentramento, come evidenziato dalla divisione nelle tre aree autonome di Afrin, Jazira e Kobani. Un esperimento di amministrazione politica non statale, estremamente flessibile, anti monopolistica, orientata al consenso e fondata sul femminismo e l’ecologismo. Un prototipo di democrazia che pare quasi un’utopia per il tempo e il territorio in cui si è attuata. Uno Stato che è l’estremo e consapevole tentativo di un popolo di crescere all’insegna del progresso e delle libertà individuali. Poesia, insomma, vera musica per le orecchie degli amanti dei diritti civili, sociali e umani.

Uno stato indipendente curdo

Detto questo, il Rojava ha sempre incontrato sulla sua strada verso la democratizzazione la ferrea opposizione di Iran, Iraq e soprattutto Turchia per motivi che trovano le fondamenta in una delicata questione socioeconomica. Secondo Valeria Talbot, responsabile del Programma Mediterraneo e Medio Oriente dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano, Ankara mira a contenere quella che viene percepita come una “minaccia esistenziale” alla propria sicurezza nazionale, alla luce degli stretti legami tra YPG e il PKK col quale Erdogan ha da quasi tre anni ripreso a scontrarsi duramente nelle provincie meridionali della Turchia. “Il principale timore del governo turco è la creazione di uno stato indipendente curdo al suo confine meridionale che faccia da catalizzatore per le istanze autonomiste dei curdi turchi”, sostiene la ricercatrice italiana.

Ma è evidente come la questione sociale non sia l’unico ago della bilancia. Il Kurdistan sorge infatti sopra alcuni dei giacimenti idrici e petroliferi più imponenti del mondo. Se esistesse uno Stato pancurdo sarebbe sicuramente uno dei più ricchi e influenti della Terra. Per quanto riguarda l’area siriana, più precisamente presso Giazira, i pozzi di Kerashuk, Ramelan, Zarbe e Oda garantiscono estrazioni massicce e costanti, motivo delle brame di tutti i paesi limitrofi. Come nella maggior parte dei casi, in quest’epoca ancora troppo dipendente dalle fonti di energia non rinnovabili, la vita umana ruota intorno al petrolio e i governi usano l’oro nero per esercitare un potere paracoercitivo e per spostare gli equilibri a loro favore.

Prendiamo, per esempio, il caso dell’Iraq. Quando nel 2012, come riportato allora dall’Economist, le prime oil major iniziarono a investire nella regione semiautonoma del Kurdistan iracheno, il governo di Baghdad strinse accordi con il governo regionale curdo, KRG, così che il 17% degli introiti arrivasse direttamente e costantemente nelle tasche del popolo curdo (un giro annuo di più di dieci miliardi di dollari che rappresentavano circa l’80% del fabbisogno necessario alla regione per mantenere la propria autonomia). Exxon, Total, Chevron e Gazprom finirono così per costituire un’arma nelle mani dell’Iraq per concedere un margine di autonomia importante ma controllato al governo regionale curdo. Il crollo del prezzo del barile del 2014 e il conflitto siriano misero definitivamente in crisi questo meccanismo sottolineandone la precarietà e la dipendenza da cause esterne. “Il KRG ha provato a far fronte al nuovo scenario con l’indebitamento verso le banche locali e turche e con il supporto da parte delle compagnie di trading internazionale”, come sostiene l’esperto di energia e geopolitica Raffaele Perfetto su affarinternazionali.it. “Nel 2015 ha provato anche a lanciare un bond internazionale dal valore di mezzo miliardo di dollari: la collocazione non è andata a buon fine proprio per la precaria condizione di sovranità che non ha convinto gli investitori.”

Tornando alle vicende che riguardano le mire indipendentistiche del Rojava, sembra che nell’ultimo mese il governo di Damasco sia intervenuto in modo deciso sulla scena cambiando le carte in tavola. I combattenti filogovernativi delle Forze di Difesa Nazionale, NDF, hanno portato il loro supporto ai guerriglieri YPG. Nuri Mahmud, portavoce dei soldati curdi, ha dichiarato che i reparti regolari siriani saranno dispiegati al confine con la Turchia. Nel frattempo in Siria tutti i media insistono su un’alleanza per unirsi nella resistenza all’aggressione turca, ma l’esercito regolare di Damasco a fine febbraio ancora non si era mosso, Erdogan continua a fare la voce grossa e Assad non sembra proprio aver voglia di fare la guerra alla Turchia ma probabilmente gli interessa soltanto tornare ad occupare il confine turco-siriano che da anni ormai è controllato dalle formazioni curde. “Se una Siria federale e non la secessione curda è l’obiettivo del popolo del Rojava, è ovvio che il governo centrale sarà chiamato a riprendere il controllo delle frontiere”, ha sostenuto l’analista Mouin Rabbani sulle pagine del quotidiano Il Manifesto. “La richiesta di intervento rivolta a Damasco è legata al presente, per fermare la Turchia, e alla costruzione delle basi di un negoziato per il riconoscimento della piena autonomia del Rojava. A maggior ragione dopo l’abbandono della causa curda da parte degli Stati Uniti di Trump.”

Ma se le intenzioni del governo siriano restano ambigue, quelle di Ankara sembrano particolarmente chiare e decise. Come testimoniano quotidianamente molti reporter in azione sul campo, settimana scorsa l’esercito turco, che vanta l’appoggia di diverse formazioni jihadiste, si è avvicinato sempre di più ad Afrin, in particolare dalla direzione di Shera, accerchiando la città nella quale si sono concentrati tutti i rifugiati scampati ai bombardamenti delle aree limitrofe. La densità di vite umane è altissima e da quando gli aggressori hanno preso il controllo della diga di Meidanki l’acqua arriva ai civili curdi col contagocce. Ovviamente mancano anche molti generi di prima necessità e la situazione non sembra poter migliorare nel breve termine. L’assedio è entrato nel vivo della sua tragicità tra il silenzio e l’inerzia delle organizzazioni internazionali e dell’ONU, grande assente in quella che sta diventando una delle pagine più sanguinose della storia recente.

Una terra sotto minaccia militare

Le vicende del Kurdistan e del suo popolo sono dunque destinate a rimanere bloccate nel fumo degli interessi di forze esterne. Prima furono Francia e Inghilterra a smembrare il territorio disperdendo le genti curde con gli accordi post bellici dei ministri Sykes e Picot. Fu poi il leggendario Mustafa Kemal, padre del popolo turco, a mettere in discussione gli articoli 62 e 64 del trattato di Sévres – siglato il 10 agosto 1920 – che avrebbero dovuto tutelare le minoranze etniche e religiose dalla caduta dell’Impero Ottomano in poi. E infine fu la volta dei regimi teocratici musulmani che promossero, in diversi momenti, politiche di profonda repressione in Siria, Iraq e Iran. Senza dimenticare le interferenze Usa, ovviamente. In più occasioni, più precisamente tra la guerra del Golfo e l’invasione dell’Iraq, gli Stati Uniti si dichiararono propensi a concedere l’indipendenza ai cittadini curdi in modo da ottenerne la consueta “tutela” e a guidare il giovane Stato in un lungo e lento processo di democratizzazione, locuzione standard usata dalle potenze imperialiste per stabilire protettorati economici e creare riserve di carboni fossili inesauribili, salvo poi cedere alle pressioni del solito sultanato di Erdogan determinato a mantenere il Kurdistan diviso e frammentato, incapace di autodeterminarsi e di difendersi in maniera centralizzata e quindi più esposto agli attacchi politici, economici e militari della Turchia in primis e del resto del mondo poi.

Agli occhi della maggior parte degli occidentali il Kurdistan è una sorte di stato fantasma, un frammento di terra incastonato in qualche antica saga mitologica, relegato nell’abisso geopolitico delle steppe mediorientali dove non cresce nulla al di fuori dell’odio per l’occidentalismo. Ma non è affatto così. Il Kurdistan esiste veramente, non è uno dei fantastici mondi erranti del regista giapponese Hayao Miyazaki, non è un’isola omerica né un artefatto distopico orwelliano, anzi. Il Kurdistan è una realtà importante, una regione di quasi duecentomila chilometri quadrati in cui vivono circa cinquanta milioni di persone tra arabi, armeni, osseti, persiani, turchi, azeri, assiri e turcomanni. Kurdistan vuol dire religioni che convivono, sunniti e cristiani, yazidi ed ebrei. Il Kurdistan fu ieri ed è oggi, con le sue donne, i suoi bambini, gli anziani, i soldati, i saggi, i professori, i filosofi, gli operai e i romanzieri. Antico come la Mesopotamia, presente nella memoria storica sin da Senofonte e Carlo Magno, oggi il Kurdistan esiste come esiste l’Italia, con l’unica differenza che vive sotto costante minaccia militare.

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