editoriale 24 04

Se il processo è anche mediatico si può condizionare il giudizio finale?

di SIMONA GROSSO

 

È sempre più inflazionata l’espressione processo mediatico.

I casi giudiziari di maggiore risonanza vengono analizzati nei salotti televisivi con plastici ed esperti che a vario titolo manifestano opinioni e giudizi, sulla carta stampata, nel web, nei vari social, a volte in una sorta di gogna del terzo millennio.

In realtà l’attenzione mediatica verso i casi più eclatanti non è certo argomento nuovo: l’attenzione pubblica sempre è stata attratta dalle vicende giudiziarie, sin dai periodi più remoti.

Andando a ritroso nel tempo, basti pensare all’affaire Dreyfus che divise la Francia dal 1884 al 1906 con l’accusa di altro tradimento mossa nei confronti del capitano Alfred Dreyfus, rivelatosi poi innocente e graziato, ma solo dopo essere stato processato ed esposto ad una campagna di stampa, da un lato schierata a favore della sua innocenza e dall’altro colpevolista ed antisemita.

Altrettanto oggetto di attenzione mediatica fu il caso degli anarchici Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, ingiustamente giustiziati il 23 agosto 1927 a Charlestown nel Massachussets, per crimini commessi e confessati da altri, a seguito di un processo svoltosi in un clima xenofobo, di discriminazione contro gli immigrati e antisindacale, caratterizzato da pregiudizi, irregolarità procedurali, parzialità, la cui sentenza di condanna fu accompagnata da accese proteste negli Stati Uniti ed in altre parti del mondo. Il 23 agosto 1977 l’allora governatore Michael Dukakis disse che la condanna fu ingiusta e che i due italiani dovevano essere riabilitati, ma nessun governo degli Stati Uniti ha mai riabilitato Sacco e Vanzetti.

Altro caso mediatico che scosse l’opinione pubblica americana fu quello dell’omicidio della famiglia Clutter , massacrata il 15 novembre 1956 nella propria abitazione, nella cittadina di Holcomb nel Kansas da due balordi alla ricerca di un bottino inesistente. La vicenda fu narrata nel primo vero grande romanzo verità “A sangue freddo” dello scrittore statunitense Truman Capote.

 

Una morbosa attenzione

 

Anche nel nostro Paese, da sempre, l’attenzione mediatica si è concentrata su alcune vicende giudiziarie.

Così nel primo dopoguerra suscitò grande attenzione il caso di Rina Fort, soprannominata dalla stampa del tempo “la belva di via San Gregorio”, che il 26 novembre 1946 a Milano massacrò la famiglia, moglie e tre figli, del suo amante.

Il caso Montesi che, con il ritrovamento del cadavere della giovane Wilma Montesi sul litorale di Torvaianica l’11 aprile del 1956, diede il via ad uno dei casi giudiziari più controversi dell’Italia di quegli anni. Furono coinvolti anche nomi eccellenti della politica, stuzzicando l’attenzione pubblica con notizie di festini a base di sesso e droga nell’Italia puritana di quegli anni. Il caso Montesi è rimasto irrisolto.

Vi fu anche il massacro del Circeo nel settembre del 1975 in cui perse la vita Rosaria Lopez e a cui sopravvisse, fingendosi morta, Donatella Colasanti. Il processo che ne seguì ebbe grande risonanza mediatica, anche perché per la prima volta furono ammesse a costituirsi come parti civili le associazioni femministe.

Altri casi ancora ebbero grande eco sulla stampa, come il caso Graneris, in cui la giovane Dorina Graneris con il fidanzato Guido Badini, a Vercelli, nella notte tra il 13 e 14 novembre 1975 uccisero a colpi di pistola i genitori, il fratello ed i nonni materni della ragazza.

Eclatante e drammatico fu il caso di Enzo Tortora, scagionato dalle gravi accuse a suo carico solo dopo un calvario giudiziario che marchiò a fuoco la sua vita e la sua carriera, sino alla sua morte.

Non si possono dimenticare i casi della cronaca giudiziaria più recente: il delitto di via Poma del 1990 a Roma, quando fu uccisa Simonetta Cesaroni, con la riapertura del processo a distanza di oltre vent’anni e l’assoluzione dell’allora fidanzato Raniero Brusco. Il caso di Pietro Maso che nel 1991 massacrò con un gruppo di amici i genitori per ottenerne l’eredità.

Il caso di Erika e Omar che il 21 febbraio 2001 uccisero con inaudita ferocia la madre ed il fratello della ragazza.

Avvicinandosi ai giorni nostri, anche grazie all’aumento esponenziale dei mezzi e dei modi di informazione a disposizione, l’attenzione mediatica si è fatta sempre più viva, riguardo ai casi che si sono susseguiti nel tempo. Basti pensare al delitto di Cogne, con l’omicidio del piccolo Tommaso Onofri, alla strage di Erba, al delitto di Garlasco, al caso di Meredith Kercher, al caso Parolisi, agli omicidi delle giovani Sara Scazzi e Yara Gambirasio.

In tutti i casi, sin dall’apertura delle indagini, si parla di processo mediatico: l’espressione non è tecnicamente corretta.

Il termine processo ha un significato ben preciso: riguarda la fase successiva all’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, che nel nostro sistema è obbligatoria secondo il dettato dell’art. 112 della Costituzione.

Prima di questo momento deve parlarsi di procedimento, il cui avvio è determinato dall’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro.

Al termine delle indagini il Pubblico Ministero deciderà se richiedere l’archiviazione del procedimento ovvero se esercitare l’azione penale: solo in quest’ultimo caso la persona indagata diverrà imputata e potrà parlarsi di processo.

La distinzione è di non poco conto, perché durante il procedimento vengono compiute le indagini preliminari che sono coperte da segreto. Al riguardo l’art. 114 del codice di procedura penale afferma che “è vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a quando non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”, mentre l’art. 329 dello stesso codice sancisce che “gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti da segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”.

L’attenzione dei media, però, nei casi di cronaca più eclatanti si scatena sin dai primi momenti: l’opinione pubblica assiste a conferenze stampa e a programmi televisivi, legge articoli sulla carta stampata o sul web, partecipa ad accesi dibattiti sui social con il rischio di arrivare a giudizi di condanna o di assoluzione, prima ancora che il processo possa svolgersi nella sua sede naturale, ossia il dibattimento, sede eletta di formazione della prova.

L’argomento è molto delicato e tocca aspetti disciplinati dalla Carta Costituzionale, primo fra tutti il principio del giusto processo disciplinato dall’art. 111, secondo cui “ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale”.

L’art. 27 della Costituzione sancisce poi il principio di presunzione di innocenza per cui “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.

Altresì tutelato dall’art. 21 della Costituzione è però anche il diritto di informazione, di critica e di cronaca.

C’è quindi un’esigenza di bilanciamento tra principi costituzionalmente tutelati: diritto di cronaca giudiziaria, da una parte, e diritti individuali alla vita privata, alla presunzione di innocenza, alla riservatezza, dall’altro.

Significativa è la Raccomandazione  emanata nel 2003 dal Comitato dei Ministri del Consiglio di Europa che, al principio 2, afferma “che il rispetto del principio di innocenza costituisce parte integrante dei diritto ad un giusto processo. Ne consegue che pareri e informazioni relativi a procedimenti penali in corso dovrebbero essere comunicati o diffusi da mezzi di comunicazione soltanto se ciò non pregiudica la presunzione di innocenza della persona sospettata o imputata di un reato”.

Altrettanto fondamentale è il principio 10 della suddetta raccomandazione secondo cui “in rapporto ai procedimenti penali, soprattutto qualora siano coinvolti giurati o giudici onorari, le autorità giudiziarie e di polizia dovrebbero evitare di fornire pubblicamente informazioni che comportino il rischio di pregiudicare in misura sostanziale la correttezza del procedimento”.

Come detto si tratta di una raccomandazione, ossia di un atto non vincolante, diretto agli Stati membri dell’Unione Europea.

Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha preso posizione su tali tematiche.

Si pensi alla sentenza 26/04/1979 Sunday Times contro U.K. in cui si è affermato che “l’idea che i Tribunali non possano funzionare nel vuoto è in generale condivisa. Il loro compito è quello di comporre le controversie ma nulla vieta che esse  non possano dar luogo a dibattiti in altre sedi, vuoi sulle riviste specializzate, sulla grande stampa o tra il grande pubblico. Inoltre se è vero che i mezzi di comunicazione non devono superare i limiti stabiliti per la buona amministrazione della giustizia (tra i quali rientra il principio di presunzione di innocenza) è loro compito comunicare informazioni e idee sulle questioni di cui si occupano tribunali, così come su quelle relative ad altri settori di pubblico interesse. Accanto alla loro funzione di fornire informazioni sta il diritto del pubblico ad essere informato”.

 

Informare senza suggestionare

 

La stessa Corte Europea nella sentenza Worm contro Austria 29/08/1997 ha riaffermato che anche gli organi di informazione sono obbligati a rispettare il principio di innocenza, sancito dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Anche nel nostro Paese la Corte di Cassazione si è più volte espressa, affermando che “non può tacersi che nell’attuale società mediatica l’opinione pubblica tende ad assumere come veri i fatti rappresentati dai media, se non immediatamente contestati: la verità mediatica, cioè quella raccontata dai media, si sovrappone, infatti, alla verità storica e si fissa nella memoria collettiva (…)” (Cassazione Civile, Sezioni Unite 28/01/2014 n. 6827), concludendo “a ciascuno il compito suo, agli inquirenti il compito di effettuare gli accertamenti, ai giudici il compito di verificarne la fondatezza, al giornalista il compito di darne notizia nell’esercizio del diritto di informare, ma non di suggestionare la collettività” (Cassazione penale 01/01/2011 n. 3674).

A chiusura, significative appaiono le parole del Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Eugenio Albamonte che, intervistato da “Il Foglio” ha affermato che “in Italia abbiamo un mostro chiamato processo mediatico e credo che sia giusto si lavori seriamente per sgonfiare questa bolla pericolosa, che complica i processi, danneggia gli indagati e fa male anche alla credibilità della magistratura, e dunque a noi”.

Sarebbe auspicabile che mezzi di informazione ed operatori del diritto potessero lavorare all’insegna dell’oculatezza ed evitare che la spettacolarizzazione dei casi mediatici possa compromettere l’immagine della giustizia ed avere ripercussioni negative, a volte irreparabili, per chi venga a trovarsi al centro delle vicende giudiziarie, prima ancora di essere giudicato da chi di dovere e nelle sedi a ciò deputate.

 

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