Il professor Giuliano Noci, prorettore del Politecnico di Milano

IMPARIAMO A CONOSCERE LA CINA COSI’ CAPIREMO COME INTERAGIRE

Giuliano Noci, prorettore del Politecnico di Milano: “Il nostro approccio è troppo frammentato, inefficace. I politici devono studiare e capire di più questo Paese”

La Cina sta diventando il principale mercato mondiale, in ogni settore. L’Italia guarda con crescente interesse a questo gigante, ma lo fa da una posizione di inferiorità – dati alla mano, come vedremo – e senza un adeguato metodo, soprattutto culturale. Nell’interscambio commerciale, ad agosto 2021 l’Italia importava dalla Cina beni per quasi 24 miliardi di euro mentre ne esportava verso Pechino poco oltre i 10 miliardi (erano stati circa 13 nel 2018). Il disavanzo è palese e c’è parecchio da fare. Ne parliamo con il professor Giuliano Noci, prorettore del Politecnico di Milano, professore ordinario di marketing e inoltre amministratore delegato di Polimilano Educational Consulting Ltd – società creata dall’Ateneo milanese per realizzare progetti di formazione post graduate e trasferimento tecnologico in Cina.

Professor Noci, è possibile essere amici della Cina?

Mettiamoci d’accordo su ciò che vogliamo intendere per amicizia. Un amico è colui che dice la verità, non chi vuole che facciamo le cose che lui ci dice, ma vuole confrontarsi con franchezza. Sul piano commerciale, occorre simmetria, un atteggiamento di rispetto ed egualitario.

Sul piano commerciale come vanno le cose?

Non sempre bene. Per esempio, sui prodotti alimentari abbiamo grossi problemi, ci creano non poche difficoltà per esportarli verso la Cina. Rendono complicato l’accesso ai vari mercati, anche nella chimica per fare un altro esempio. Va bene il settore lusso: il 50% della domanda dei beni del lusso, in ambito mondiale, viene dalla Cina.

Ma allora lo sguardo della Cina nei confronti dell’Italia è un po’ supponente?

Niente affatto. Guardi, la Cina è la più antica cultura in assoluto del pianeta e hanno una grande ammirazione per il nostro Paese perché gli riconoscono un patrimonio culturale e storico ineguagliabile, invidiato da molte altre nazioni. Un tale atteggiamento che non hanno nei confronti degli Usa, perché lo ritengono un Paese senza storia, troppo giovane.

Cosa bisogna fare per migliorare i rapporti commerciali con questa grande nazione?

Prima di tutto, i vari attori che si avvicinano alla Cina dovrebbero imparare a conoscerla. In Italia ci sono i singoli ministri che vanno a negoziare in rappresentanza del proprio dicastero e questo non  va bene. Bisogna presentarsi non con un singolo progetto ma con un pacchetto che contempli molteplici proposte. Ripeto: i nostri politici, troppi, si muovono senza sapere nulla. Invece per un Paese a export netto come il nostro la conoscenza di quel mercato è fondamentale, ma i nostri politici si comportano come se trattassero con un interlocutore statunitense.

Cosa suggerisce come intervento immediato, al di là di una maggiore conoscenza della Cina?

Evitare di fare il gioco dei cinesi, cioè di frammentarci nelle negoziazioni. Sei vai a prenderli a uno a uno non hai forza. Ad esempio, se si deve negoziare una commessa sui voli aerei e ti presenti con Ena e Enac, sia detto con tutto il rispetto, perdi immediatamente perché loro hanno strutture cento volte più grandi delle nostre. La Cina deve fare 100 aeroporti nei prossimi 10 anni, devono acquistare migliaia di aerei. Allora bisogna impostare la trattativa  proponendo un pacchetto che contempli anche la possibilità, da parte loro, di un maggior utilizzo dei nostri porti. Questo sempre a titolo esemplificativo. In altri termini: bisogna raggiungere un bilanciamento di interessi, invece da noi c’è frammentarietà, ci si scontra sempre con un Dna italico discontinuo, campanilistico, oserei dire, mentre loro hanno una visione integrata. Dobbiamo conseguirla anche noi.

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