Arte e stravolgimenti.
Quando un’opera viene alterata per “educare”

«Anche nel caso della riproduzione più perfetta, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova. Ma proprio su questa esistenza unica, e in null’altro, si è attuata la storia a cui essa è stata sottoposta nel corso del suo durare (…) L’hic et nunc dell’originale rappresenta l’idea della sua autenticità (…) L’intero ambito dell’autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica, e naturalmente non soltanto a quella tecnica».

Così Walter Benjamin, filosofo, scrittore, critico d’arte e letterario tedesco vissuto nei primi decenni del secolo scorso,  nel suo saggio, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Era il 1936.

Lasciamolo lì, per ora, e guardiamo a quanto Benjamin non avrebbe potuto immaginare. Altro che hic et nunc: oggi le mostre cosiddette “immersive” fanno a meno anche dell’opera d’arte che promettono di mostrare, o la stravolgono per – così sembra  – avvicinare i più alle arti, in particolare i bambini.

Al grido di “experience!” propongono elementi dei quadri in movimento, proiezioni su pareti o calpestabili sul pavimento, giravolte di ritratti con sottofondo musicale, puzzle di capolavori, pezzi d’opere da ricomporre a fantasia dell’utente, flash e zoom su girasoli e ninfee. Dirli decontestualizzati è un eufemismo.

“Van Gogh Alive”, “Klimt Experience”, “Chagall. Sogno di una notte d’estate” sono alcuni dei titoli di questo circo dell’arte.

Intendiamoci: belli sono belli, coreograficamente ottimi, coinvolgenti, anche. E se guardiamo al successo che hanno avuto in termini di presenze (500mila in Italia per Van Gogh,  quasi 600 mila per Chagall in Francia, 103mila per Klimt solo a Milano) hanno ragione gli organizzatori. Beh, anche il Grande Fratello versione tv , con buona pace di Orwell, registra record di ascolti.  Ma il punto è un altro, e il discorso vale anche se ci spostiamo alla letteratura dove il fenomeno dell’alleggerimento della proposta al pubblico è più antico e si manifesta nelle riduzioni per l’infanzia dei grandi capolavori del calibro dei Promessi Sposi e della Divina Commedia.

Il punto, secondo noi (un punto di vista di semplici fruitori, senza i titoli dei critici) è questo: lungi dall’essere educativa, la pratica di stravolgere, manovrare, modificare un’opera d’arte, offrirla in pasto a chi possa sbranarla, offendendo il suo autore, ottiene l’effetto opposto.  Sia che si tratti di adulti che desiderano comprenderla, sia nel caso in cui vogliano semplicemente goderne per trarne beneficio dei sensi, sia che si voglia educare il bambino alla sua fruizione, questa modalità cavalca il triste messaggio dei nostri tempi: puoi arrivarci senza fare fatica, e senza impiegare troppo tempo.

E invece no. Studiare e capire richiedono fatica e lavoro, un impegno peraltro anche con risvolti piuttosto piacevoli e gran soddisfazione.

E sennò c’è un altro modo per mettere un bambino piccolo (o un adulto) davanti a un quadro: metterlo davanti a un quadro. Punto.

Recentemente a Milano sono state ospitate nella Cripta di San Sepolcro tre installazioni di Bill Viola, un artista il cui uso della multimedialità è parte dell’opera stessa. Si trattava qui di video, sul tema della nascita e della morte, del passare del tempo, dei sentimenti dell’uomo visti nel dettaglio.

Una bambina saltellava di fronte alle immagini del dramma di una donna che attraversava il tempo della vita sotto un torrente d’acqua passando dal bianco e nero al colore con il volto segnato, un suo coetaneo seduto per terra guardava con occhioni spalancati, per poi scappare dalle immagini in una capriola di risate.

Si spostavano veloci quindi davanti all’uomo che risorge dalla sabbia, e a quel magnifico quadro vivente dai colori caravaggeschi del gruppo di uomini che col volto esprimono la gamma di sensazioni in un rallenty volutamente estremo.

Roba per bambini? No. Ma godevano entrambi della suggestione del luogo ipogeo, della grotta rifugio e dei suoi dislivelli, e chissà come e dove nella loro testolina avranno sistemato quelle immagini, e il felice accostamento di quei video in un ambiente che ospita anche la copia (Benjamin cosa direbbe?) della Sacra Sindone.

Eppure quale esperienza educativa sarebbe stata la spiegazione di quell’arte se rivisitata, risistemata, rielaborata per diventare a misura di bambino? E la misura, un bambino, almeno al primo approccio non può darsela da sé, come la preferisce e come è in grado?

Poi certo ci sono le scuole, i maestri, e con loro si studia, chi per obbligo, chi per forte desiderio. E qui arriviamo all’impopolarità, dicendo che non tutto è per tutti. Non tutti arriveranno allo stesso grado di comprensione. Ma c’è un diritto alla fruizione, che ognuno se la gestisca come preferisce. Al limite, anche guardando un quadro o leggendo una poesia senza interessarsi dell’autore. Ma che sia un quadro, non la sua riproduzione/distruzione ai tempi della multimedialità. Che sia una poesia, non la sua parafrasi.

Quello che segnalava Benjamin (pur senza preoccuparlo, va detto, e piuttosto nell’interrogarsi  sulle potenzialità dell’arte riproducibile… ma si parlava di cose come un concerto di Ravel riascoltabile lontano da Ravel o di un Picasso riprodotto sulla rivista) era il venir meno dell’”aura”, un «singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina. (…) Giorno per giorno si fa valere sempre più incontestabilmente il bisogno di impadronirsi dell’oggetto da una distanza minima, nell’immagine o meglio nella riproduzione» (“Piccola storia della fotografia”, 1931)

Benjamin vi vedeva una perdita di sacralità, senza contestare la qualità dell’opera riprodotta. Nelle nostre contemporanee “experience” non c’è l’opera: da qui dobbiamo partire.

E per uscire decisamente dal sacro sarà facile supporre che si tratti – diciamo “anche”? – di una questione di costi. Molto ridotti, rispetto all’allestimento di una mostra d’arte con l’arte.  E nella logica – diciamo “forse”? – non già di avvicinare il pubblico all’arte, ma alla biglietteria.

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