BLITZ, IL FASCINO DI UN RISTORANTE DOVE IL DIALOGO È COME IL CIBO
“Dobbiamo tornare alla semplicità. La semplicità significa vita, significa tempo libero per te.”, parla Antonello Schirru, proprietario e manager del locale a Milano da ormai 32 anni
La storia del ristorante Blitz a Milano inizia 32 anni fa. In realtà, il tutto comincia molto prima quando Antonello Schirru lascia la Sardegna a 14 anni per perseguire i suoi sogni e va a lavorare in un ristorante a Roma. Sono proprio la sua esperienza vissuta e la sua persona solare e saggia che danno l’anima a questo locale e lo rendono unico. Nato come ristorante dopo teatro il locale è aperto solo di sera, fino le due di notte. Luci basse, atmosfera accogliente e intima, un menu che è sempre lo stesso e che non si legge sulla carta, ma te lo racconta Antonello in persona. Gli interni sono sempre stati così, come sono oggi, e li ha creati lui stesso, senza l’aiuto di un architetto. Alle pareti, le foto dei momenti magici con ospiti illustri da tutto il mondo… Un posto dove trovi non solo ottimi piatti, ma anche dialoghi molto umani, semplicità е la sensazione di essere a tuo agio in ogni istante. Dove puoi vedere insieme persone di tutte le età, di tutte le fasce sociali, politici e star, turisti e gente della zona, bambini e anziani. Tutti contenti di trovare sempre questo posto e sempre Antonello, un po’ come tornare a casa dai genitori, dove sei sempre voluto e aspettato.
Come ha cominciato la sua storia?
Quando sono arrivato a Roma pensavo di scoprire un mondo, ma i primi due mesi erano molto difficili. Facevo il lavapiatti. Non conoscevo nessuno. Abitavo vicino Trastevere e al mattino facevo a piedi tutta la strada per non perdermi. Poi smettevo di lavorare a mezzanotte, tornavo a casa verso le due. Dopo due mesi mi hanno passato nella cucina e dopo sei: alla sala. Ero veloce, ho capito il gioco e ho imparato bene a fare questo lavoro. A Roma sono rimasto un anno, e poi sono andato a Milano, dove c’era il mio padrino, che aveva già un ristorante. Lui era bravo e mi ha insegnato tutto. Erano tempi diversi, comprava ristoranti, li portava su e poi li vendeva. Io avevo 15 anni, ho lavorato con lui per un anno e mezzo.
E poi?
Ho capito che volevo qualcos’altro e sono andato a lavorare al Monte Cristo in Corso Sempione, un ristorante di un certo livello. Guadagnavo benissimo. L’unico problema era che non ero libero alla domenica, io ero fidanzato con la ragazza che poi è diventata mia moglie. Volevo avere più tempo per stare con lei. Successivamente sono andato a lavorare al ristorante Albricci, adesso non c’è più, era di fronte al Hotel Cavalieri. Poi in un ristorante a Brera, si chiamava Giallo, e lì sono rimasto 10 anni. Era frequentato dalle star, dalle persone più famose nel mondo. Era un ristorante aperto solo la sera, chiuso la domenica e nel mese d’agosto.
Le ha piaciuto questo format?
Si, perché avevo tempo libero per me! Quando ho aperto il mio ristorante poi, l’ho aperto con il cuoco che c’era in quel locale. Avevo 27 anni. Abbiamo comprato il locale e abbiamo fatto un sacco di cambiali, però a me piaceva il gioco del quel periodo, perché c’era la possibilità di vedere oltre. La gente era diversa, girava, si dava d fare, aveva voglia di vivere. Adesso l’unico problema che ha la gente è che non ha più voglia di divertirsi… Perché non ne vale più la pena. Ho aperto questo ristorante tanto tempo fa, ma se dovessi aprirlo oggi, non lo farei. In Italia no. Nei tempi quando facevo il cameriere, Milano non era una Milano da bere. Era una Milano dove tu guardavi oltre.
Che altro manca oggi?
Sta mancando la comunicazione. Diventa troppo fredda, troppo da robot. Manca il rapporto umano, il confronto con le persone. Bisogna tornare leggermente indietro. Perché tornare indietro è andare avanti. A me piace ancora il mio mestiere proprio per questo: ho un rapporto con le persone. Tre, quattro generazioni vengono qui. Perché si crea un rapporto, dove tu sei vero.
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