L’autore occulto, il mondo nascosto dei traduttori

Dimenticati, a volta trascurati persino dagli editori, ci regalano la possibilità di leggere tutta la letteratura straniera. Interpretando le parole

“1984” di Gabriele Baldini, “Moby Dick” della Minoli e “I fratelli Karamazov” di Maria Rosaria Fasanelli. Follia? Ignoranza abissale? No. Sono, questi, i nomi dei traduttori italiani di così alta letteratura. Ora alzi la mano chi li conosceva o avrebbe saputo attribuire il nome all’opera. Eppure parliamo di professionisti che hanno in mano le parole scelte dai più grandi autori, e che devono trasportare quelle parole su pagine ancora bianche, in altra lingua, lasciandone intatto il valore, oltre naturalmente al senso. Una responsabilità talmente alta da poter considerare questi professionisti i co-autori dell’opera.

Ma talvolta già l’editore, anche nel predisporre la quarta di copertina, relega il nome del traduttore in posizioni poco “visibili”.  “Gente di Dublino” della Universale Economica Feltrinelli o “La Metamorfosi” edita da Bur sono rari esempi di onore in copertina al traduttore, ma si fa fatica a trovarne.

Numeri significativi

Quanti sono i traduttori in Italia? Ci risponde Stefania Marinoni, referente della Commissione Nazionale Traduttori Editoriali di AITI (Associazione Italiana Traduttori e Interpreti):

“È difficile stabilirlo con certezza perché non ci sono dati ufficiali: in Italia non esiste un albo o un elenco a cui è necessario iscriversi per esercitare. Tra i traduttori editoriali pochi sono quelli “puri”: molti affiancano un altro lavoro, ad esempio insegnano, o traducono anche in ambito tecnico. AITI è l’associazione di gran lunga più numerosa, con 1145 soci tra traduttori e interpreti (992 donne e 153 uomini) di cui 120 editoriali, ma ne esistono anche altre, e bisogna considerare che non tutti i colleghi sono iscritti a un’associazione”.

Migliaia di professionisti, dunque, che spesso si trovano ad operare con scarse se non nulle tutele e compensi inadeguati. A questo pensa “Strade”, la sezione traduttori editoriali di Slc-Cgil.

Parliamo con Elisa Comito, coordinatrice del servizio di consulenza contrattuale e co-autrice del  Vademecum (http://www.traduttoristrade.it/vademecum/). Aggiornato a dicembre 2017, il documento contiene anche un capitolo sui contratti diretti tra traduttori e scrittori.

Chiediamo a Comito anche del protocollo d’intesa “Le buone pratiche per un’editoria sana” firmato nel 2016: ha dato i suoi frutti? Quanti editori lo hanno sottoscritto?

“Il protocollo è stato sottoscritto dagli editori di Odei (http://www.odei.it/i-nostri-soci/), che sono un’ottantina. E sì, sta dando i suoi frutti perché, anche se ancora capita che alcuni di questi editori (o i loro redattori) propongano modelli con clausole difformi dal protocollo, quando i colleghi li mettono di fronte alle condizioni concordate modificano il contratto. Nel complesso i risultati sono positivi, al punto che i colleghi usano queste buone prassi anche con editori non Odei”.

E se Daniel Pennac paga di tasca sua i diritti alla traduttrice italiana Yasmina Melouah, è perché è rimasto esterrefatto nell’apprendere che lei non avrebbe ottenuto diritti dall’editore.  Un’inchiesta svolta nel 2011 dall’associazione culturale Biblit su un campione di 272 traduttori (http://www.biblit.it/risorse/inchieste/) fotografa la situazione compensi:  per la maggior parte del campione la tariffa massima a cartella si situa tra gli 11 e i 15 euro. La tariffa minima, invece, si concentra tra i 6 e i 12 euro e i compensi più bassi si hanno per le traduzioni di letteratura per ragazzi.

Una professione affascinante: due testimonianze

Resta, e certamente non ultima, la ricchezza di una professione affascinante.

Ce ne parla Marco Rossari, traduttore e autore.

Lei traduce e scrive. Di tutto. Saggi, poesia, narrativa. Quanto ruba, o per dirla con più grazia, quanto rimane nella sua penna delle parole dei grandi autori che ha tradotto?

“Vorrei dirle molto. Sarebbe fantastico poter assorbire grandi scrittori come Twain o Lowry. Ma la verità è che non lo so. Di sicuro mi resta l’esperienza di avere attraversato un capolavoro in ogni anfratto, virgole comprese (si traduce anche la punteggiatura, anche se non lo dice mai nessuno). Inoltre è stato bello e singolare, per quanto casuale, che i miei due romanzi più recenti, ‘Le cento vite di Nemesio’ e ‘Nel cuore della notte’, trovassero una rima o un’eco in altre due opere tradotte, ossia ‘Il Circolo Pickwick’ e ‘Sotto il vulcano’, senza naturalmente voler fare paragoni imbarazzanti”.

Ironia e umorismo sono temi per lei importanti. Vorrei per questo soffermarmi su Alan Bennet, e chiederle due cose: si riesce a far ridere in italiano mantenendo letteralmente il proverbiale humor? Ha lavorato alla traduzione de “La cerimonia del massaggio” insieme a Giulia Arborio Mella: come si fa a tradurre in due?

“Alan Bennett è un mio grande amore, tanto che è finito anche nell’antologia curata per Einaudi ‘Racconti da ridere’. L’umorismo british è meraviglioso e difficile da rendere, anche se nulla in fondo in fondo dovrebbe essere considerato intraducibile. Semmai il problema con Bennett è che fu proprio la mia prima traduzione e non mi sentivo per nulla all’altezza. Fu Giulia Arborio Mella così generosa da offrirmi questa chance, ma tutti i meriti di quel delizioso libretto sono suoi. Ad ogni modo non trovo disdicevole lavorare in coppia. Per molti editori è un tabù: la voce dell’autore deve trovarsi con la voce di un solo traduttore, ma secondo me la traduzione è anche, è già, un lavoro collettivo, con l’editor e il revisore e il correttore di bozze, quindi reputo possibile tradurre a quattro mani, avendo forse anche uno sguardo più vigile”.

L’indagine anche veloce sul lavoro del traduttore propone temi tristi e tuttavia reali, quali la solitudine, la carenza di tutele. Cosa può dire della sua esperienza? Crede ci sia un grado di frustrazione?

“Non saprei. La frustrazione esiste in molti mestieri. Il traduttore è spesso una persona schiva, che preferisce non apparire, altrimenti non starebbe tutto il giorno in casa a lavorare sulle parole altrui. La mia esperienza è stata questa: cercare di ottenere sempre di più, cercando di lavorare bene e puntuale, e costruirsi un nome, un profilo affidabile, coltivando altri lavori paralleli. È l’unica. Del nome in copertina (che pure caldeggio) non mi importa molto, visto che già mi capita con i romanzi ed è un’emozione subito sbiadita. Alla fine credo che ben poco ti possa restituire la fatica spesa dietro le righe di uno scrittore ad esempio come Malcolm Lowry.  Come diceva una grande traduttrice: cerca di ottenere il massimo, che resterà comunque poco. Ma goditi anche un lavoro bellissimo. Essere coautori non è poco per nulla”.

Con Ilide Carmignani, traduttrice e ispanista, partiamo da una domanda provocatoria:

Quanti hanno letto in italiano “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare?” E quanti di loro sanno di aver letto Ilide Carmignani? Ovviamente mi riferisco ai temi dell’invisibilità del traduttore e della co-paternità dell’opera, sui quali le chiedo un commento.

“Credo che lo abbiano letto in tanti quel libro, che tanti altri lo leggeranno in futuro e che difficilmente qualcuno farà caso al nome del traduttore. Questa invisibilità non mi dispiace del tutto. La traduzione in fondo è un lavoro oblativo, mosso da una profonda passione per la letteratura e per la lingua. Si dà voce ad altri cercando di non perdere nulla dell’originale e contemporaneamente di non aggiungere nulla di proprio. Si vive nello spazio bianco fra le righe. Al tempo stesso restituire in italiano non solo un’altra lingua-cultura, irriducibilmente diversa, ma il modo originalissimo in cui uno scrittore utilizza le risorse a sua disposizione per crearsi una voce letteraria unica, richiede una grande creatività (oltre a non pochi saperi e competenze), tanto è vero che i traduttori sono per legge autori a tutti gli effetti. La letteratura, quando è al di fuori dei suoi confini e del suo tempo, è come la musica, ha bisogno di un interprete per prendere voce, altrimenti resta muta.

L’invisibilità del traduttore invece mi dispiace, e molto, quando viene usata per negare qualsiasi importanza al passaggio da una lingua all’altra, e si tagliano i compensi e i tempi di lavorazione, e il libro che esce in italiano finisce per diventare una brutta copia dell’originale. Gli altri paesi europei sono più consapevoli, difendono i traduttori, sanno che difenderli vuol dire difendere anche la propria cultura e la propria lingua”.

Lei è molto attiva nell’opera di valorizzazione e tutela della professione. Tra l’altro cura gli incontri de “L’AutoreInvisibile” per il Salone del Libro di Torino dall’anno 2000. In diciotto anni quali cambiamenti ha visto?

“Be’, per fortuna sono cambiate molte cose. Vent’anni fa i traduttori erano anche per i colleghi semplici nomi sulla carta. Oggi sono finalmente diventati una comunità che prende la parola davanti alle altre componenti del mondo culturale. Non solo c’è l’AutoreInvisibile al Salone di Torino, ma da sedici anni anche le Giornate della traduzione letteraria a Roma, e da sei anni Traduttori in Movimento al castello di Fosdinovo. Certo, sul versante contrattuale, dei compensi e della tutela c’è ancora moltissimo da fare, la situazione con la crisi economica che abbiamo appena attraversato è tutt’altro che migliorata. Si è tagliato sulla traduzione e più in generale sul lavoro che viene fatto sul testo, e purtroppo si vede. Per fortuna c’è anche una minoranza di editori che continuano a credere più che nel marketing, nella qualità dei contenuti”.

Infine, per sfiorare il fascino del suo mestiere: lei traduce dallo spagnolo, è conosciuta soprattutto per le traduzioni di Bolaño e Sepúlveda, ma ha toccato pagine anche di altri nomi altissimi quali Borges, García Márquez, García Lorca, Neruda… come ci si sente ad avere in mano le loro parole? E ha avuto incontri di persona con qualcuno degli autori tradotti?

“Sono onori e oneri. Onori perché è davvero un grandissimo privilegio poter dare parola italiana a libri come ‘Cent’anni di solitudine’. Oneri perché è una responsabilità gravosa nei confronti del lettore che non conosce lo spagnolo e può leggere un certo capolavoro solo attraverso la mia interpretazione.

L’incontro più bello è stato quello con Luis Sepúlveda. Più di venti anni fa, quando era appena uscito il suo secondo libro, mi fece invitare a cena dall’editore, Guanda. Era una cosa così insolita che lo presi come una specie di esame per poter continuare a tradurlo. Ero talmente nervosa e preoccupata che arrivai a Milano esausta e appena entrai in albergo cercai invano una faccia nota a cui aggrapparmi, l’editore, l’ufficio stampa, ma nulla. Uscì invece da un ascensore un tipo alto, robusto, barba e capelli neri, che somigliava terribilmente alla foto di Sepúlveda pubblicata su ‘Linea d’Ombra’. Inevitabilmente lo fissai, lui vide che lo fissavo e venne dritto da me. Nel panico mi presentai e Sepúlveda subito mi abbracciò, quasi mi sollevò da terra (i suoi famosi abbracci da orso) e mi disse che voleva ringraziarmi per aver portato le mie parole ai lettori italiani, che ero ormai la sua «compañera de camino»”.

Nelle riviste di settore

A dare spazio e voce a questo lavoro sotterraneo e indispensabile, esistono alcune riviste di settore (NdT, Il Traduttore Nuovo, Testo a fronte, Intralinea, Mediazioni). L’ultima nata, Tradurre, è presto diventata un punto di riferimento.

Ci racconta il direttore Gianfranco Petrillo:

“L’idea di una rivista che si occupasse di traduzione editoriale è nata da un gruppo di traduttrici e traduttori torinesi nel dicembre del 2010; il numero 0 fu presentato al Salone del Libro del 2011. Nel giro di un paio di numeri siamo riusciti ad allargare la cerchia dei collaboratori ad altri traduttori affermati e a diversi docenti e studiosi accademici e non, e da allora siamo costantemente cresciuti. Questo autunno, il numero 15 sarà dedicato a “insegnare/imparare a tradurre”.

E se l’autore è analfabeta?

“Quell’ungherese smarrita e senza soldi che ero, è diventata una scrittrice […]Cinque anni dopo essere giunta in Svizzera parlo il francese, ma continuo a non saperlo leggere” […] questa lingua non l’ho scelta io […] ma scriverò come meglio potrò. È una sfida. La sfida di un’analfabeta”.

Quell’ungherese smarrita era la grandissima Ágota Kristóf. Il brano è tratto da “L’analfabeta”, Edizioni Casagrande. Possiamo leggere questo piccolo gioiello autobiografico, e il tormento della sua autrice davanti a lingue “nemiche”, grazie a Letizia Bolzani, il cui nome resta là, un po’ in ombra, nel frontespizio interno.

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