Se la comunicazione tende solo a denigrare I rischi conflittuali ancora ignorati

Il Potere e il suo immaginario sono cambiati profondamente con l’avvento dei social media. Negli ultimi 10 anni la fruizione di immagini, messaggi, icone si è moltiplicata in maniera esponenziale. Il ritmo della voce si è fatto affannoso, spezzato e istantaneo perché tutto viene «twittato» e «contro-twittato» all’interno di un concerto corale dove scorrono emozioni epidermiche e improvvise fiammate umorali.

La comunicazione si è fatta effettivamente “scomposta” – non solo al livello dello scambio quotidiano di insulti su Facebook o nei Talk televisivi – ma nella vita parlamentare e ai massimi vertici istituzionali. Quella che un tempo era la nobile arte della polemica, sostenuta da scuole di argomentazione e retorica politica, è stata sostituita dalla denigrazione personale pura: “stai zitto tu, che non sei neanche degno di…”

Cosa sta succedendo più in profondità? Possiamo capirlo se impariamo a leggere le immagini dei nuovi leader. Il loro aspetto inconsueto e talvolta grottesco ci parla di una grande trasformazione in corso: non basta più la «glamourizzazione» del Potere (quella che i francesi chiamano «peopolisation du pouvoir», ovvero i potenti come vedettes di un mondo spettacolare– pensiamo alla coppia Sarkó e Carla Bruni di una decina di anni or sono. I Potenti di oggi sono spesso «freaky», hanno atteggiamenti e apparenze tra il bizzarro e il perturbante. A differenza di ieri, hanno percorsi familiari accidentati (Trump) o comunque inconsueti (Macron).

Il rapporto maschile / femminile è mutato, tanto che si assiste a una vera e propria “guerra trai sessi”, e sono mutati i modi in cui il web si “appropria” selvaggiamente delle immagini.

Ma forse, la verità è che i potenti di oggi ci assomigliano più di quello che pensiamo… Il rancore e la paura diffusi, e spesso amplificati ad arte, fanno sì che descrivono le fluttuazioni di mercato come catastrofi finanziarie. I movimenti migratori sono raffigurati come orde barbariche. L’Europa si sente invasa, spezzettata e confusa. Le conversazioni che potete fare con un tassista, o che ascoltate ogni giorno in un bar o in un luogo di lavoro, ne sono la prova evidente.

La cosa peggiore è che tutto questo genera un atteggiamento comunicativo diffuso, che gli inglesi chiamano “il gioco della colpa”: invece di chiederci “che soluzione ha questo problema?”, ci chiediamo quasi sempre “di chi è la colpa?”. La comunicazione è “scomposta” perché sono disallineati e offuscati i circuiti del ragionamento ordinario. In neurobiologia ci insegnano che, quando siamo dominati dalla paura, il nostro cervello subisce un’alterazione elettrochimica ed è come se regredisse al cervello istintivo di un rettile. Siamo dominati dalla legge del “combatti o fuggi”. Come un pugile messo all’angolo, coi guantoni alzati, pensiamo solo a “non prenderle” e, se possibile, a “darle”. Scompare la nostra capacità di rapportarsi all’altro, di capire come vede la realtà, di mediare discutendo le sue opinioni.

Volendo essere ottimisti, potremmo ricordare che, nella Storia europea degli ultimi secoli, quando si arrivava a certi livelli di conflittualità la soluzione erano guerre sanguinosissime con milioni di morti. Oggi vogliamo e dobbiamo sperare che la conflittualità diffusa non sfoci in qualcosa di peggiore, come quello che già vediamo in Medio Oriente o ai confini orientali d’Europa.

Alberto Castelvecci – Professore di public speaking e comunicazione efficace presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma.

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