Violenza verbale, nazione in decadenza. Ecco la società scomposta

Non si è mai parlato (e scritto) tanto di politica sui mass media. Il che potrebbe significare e tradursi in una presa di coscienza su ciò che agita la gestione della cosa pubblica. Questo in un Paese ove il senso civico sia evoluto, il senso dello stato diffuso e condiviso.

Ma il nostro, sotto questi aspetti, non è un Paese evoluto, anzi. Non c’è dibattito politico mediatico che non si traduca in uno scontro verbale spesso accompagnato da espressioni decisamente violente. Non c’è alcun rispetto per l’interlocutore, lo si descrive come il nemico da (ab)battere. In rete, poi, le cose vanno ancora peggio: basta esprimere un commento di natura politica per essere subissati da ingiurie, improperi, auguri di morte… Molto spesso in una lingua che è un’offesa all’italiano, tali e tante sono le sgrammaticature, gli errori ortografici, a ulteriore conferma della natura intellettuale (sic!) di chi scrive, cioè insulta.

C’è una protervia ormai generalizzata, ben coniugata a una dose intollerabile di ignoranza, per cui chiunque si sente autorizzato a rovesciare addosso a chi esprime un parere diverso dal proprio – o dal proprio clan di appartenenza – tutto il livore che porta dentro, frutto di sensi di frustrazione, in taluni casi, e di beatificazioni secolari ora di questo ora di quel politico, per cui ciò che fa e che dice è il verbo.

Fra barbarie e irrazionalità

E certamente si avvalora la considerazione del docente di antropologia culturale Fabio Dei: “La cultura umanitaria e buona parte del discorso mediale sembrano considerare le manifestazioni della violenza nel mondo contemporaneo come legata a sacche di arretratezza, alla permanenza di una barbarie e di una irrazionalità che stridono scandalosamente rispetto alle conquiste di civiltà”. (pagina 13 da Antropologia della violenza, Meltemi, 2005). Uno stridore insopportabile, anche perché si nota uno iato sempre più evidente fra ciò che siamo in grado di realizzare quando la parte raziocinante e creativa prevale su quella istintuale, insensata. Violenta.

Zigmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco, scomparso nel 2017, si era soffermato sulla trasformazione in atto nella società elaborando una teoria nella quale evidenziava l’esistenza di una società liquida: “In particolare – si legge su Wikipedia -, egli lega tra loro concetti quali il consumismo e la creazione di rifiuti umani, la globalizzazione e l’industria della paura, lo smantellamento delle sicurezze e una vita liquida sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del gruppo per non sentirsi esclusa, e così via”.

Ecco che compaiono i concetti di frenesia, dell’industria della paura, della creazione di rifiuti umani… Già nel 1964 Herbert Marcuse, anch’egli sociologo e filosofo, di origine tedesca, naturalizzato statunitense, nel suo “L’uomo a una dimensione”, parlava di società bloccata sotto ogni profilo, politico, sociale, culturale. Una decadenza in fieri che ritroviamo anche ai tempi nostri.

Ma oggi ci troviamo di fronte a una società scomposta, nel senso che proprio la sguaiatezza, la maleducazione e la violenza sono sempre più diffuse. Si cerca lo scontro, la rissa. Alcuni hanno evocato il periodo a cavallo fra le due guerre mondiali, con particolare riferimento agli anni 30, periodo caratterizzato da forti tensioni sociali, dall’avvento di regimi totalitari, da colpi di stato per rovesciare governi eletti dal popolo, con capri espiatori ben identificati – l’industria della paura già attiva – ovvero gli ebrei, il comunismo (altro regime totalitario), la speculazione finanziaria folle – il crack del 1929 portò conseguenze gravissime fino alla fine del secondo conflitto mondiale -, il diverso, visto come pericolo, cioè le persone di colore o di altra etnia rispetto a quella “dominante” in uno stato.

Squallidi spettacoli

Oggi la situazione nel nostro Paese ci pone di fronte a una classe politica scomposta, riverbero di una nazione in cui i valori fondanti quali la libertà di espressione, il che si traduce in libera circolazione di idee e persone, vengono messe in discussione: questo è un atto di una violenza inaudita. “Se non la pensi come me sei un diverso, una persona da combattere, da isolare, alla quale rendere la vita difficile. E se lavori in un giornale che ci critica, quel giornale deve chiudere”. E poi via agli improperi verso le varie istituzioni, nazionali ed europee, a squallidi spettacoli in Parlamento con urla, insulti, con una sordida teatralità. Chi governa, oggi, favorisce una visione manichea della società: “di qua noi, i giusti, che cambiano tutto, di là i cattivi, che hanno sbagliato tutto”.  Ecco, questo è l’innesco, il “nemico” è identificato con una sorta di giustificata avversione. Su di lui strali e denigrazioni a non finire.

In una società così disarticolata prevalgono i disvalori, la non-etica, proposta, propagandata come “nuova” etica: la triade maledetta denaro-potenza-bellezza ha inquinato ampiamente il modo di pensare, di rapportarsi con l’altro da sé nelle varie espressioni della vita sociale, anche di coppia.

È il trionfo del narcisismo: “Il narcisista divide la società in due gruppi: da una parte i ricchi, i grandi, i famosi, e dall’altra la gente comune”. Così scriveva già nel 1979 Christopher Lasch, uno dei maggiori studiosi di critica sociale, nel suo libro “La cultura del narcisismo” (pag. 99, Bompiani, 1995). La società scomposta va intesa anche come realtà frammentata in clan dove “il mito degli eroi” – sempre per citare Lasch – è dominante: l’eroe è anche il politico di turno che con toni e atteggiamenti arroganti sobilla la plebe che plaude estasiata di fronte al nuovo “verbo”, non importa se violento e volgare. Anzi, tanto meglio se è così: “finalmente parla come noi”.

Così viene a mancare l’ascolto. Che significa anche confronto. La società scomposta non accetta la prassi democratica, ne vuole fare a meno: “io parlo, tu ascolti ed esegui perché condividiamo le stesse idee”. Così si avvia un processo di obnubilazione delle menti – con falsità, errori, ma abbondanza di insulti – che abbassa il livello medio culturale con conseguente diffusione di una ignoranza crassa percepita, però, come (dis)valore da condividere. Non si pensi solo all’ambito politico, ma anche a quello lavorativo e familiare: la violenza verbale si diffonde con estrema facilità. Grazie anche alla rete dove i social network abbondano di falsità e nefandezze.

Ma su quella che possiamo definire comunicazione scomposta lascio la parola al professor Alberto Castelvecchi, docente di comunicazione all’Università Luiss di Roma, nell’articolo che compare di seguito.

Genitorialità diseducativa

Proviamo a parlare di buona educazione con diversi interlocutori. Si viene guardati con sufficienza, non in tutti i casi, ben inteso, ma in molti sì. La buona educazione viene vista come qualche cosa che appartiene al passato e così alcuni genitori, padri e madri, si rivolgono ai propri figli, anche in tenera età, con un linguaggio scurrile, dove abbonda la trivialità. Ne consegue una semplice considerazione: con genitori di tal risma com’è possibile auspicare un ricambio generazionale e sociale che riporti un tratto di convivenza civile accettabile?

Eppure i sani principi, i valori, dovrebbero essere trasmessi prima di tutto dalla famiglia. Ma anche la famiglia è talvolta un qualcosa di scomposto, di frammentato: divorzi, nuovi matrimoni – o nuove convivenze -, figli di genitori diversi che spesso si ritrovano disorientati nella ricerca di riferimenti affettivi che ritenevano consolidati, certi. In un andirivieni di genitori e nuove convivenze, le maggiori difficoltà di identificazione dei valori ricadono proprio sui figli, spesso in età scolare. Anche in questo caso non si vuole generalizzare: l’ascolto empatico, la condivisione di un valido percorso educativo, sono presenti anche in molte nuove realtà familiari e talora sono inesistenti in ambiti che la vulgata corrente definisce tradizionali.

Ciò che appare piuttosto diffusa, comunque, è la delega educativa affidata alla scuola. La scuola – del tutto ignorata dal documento di programmazione economica appena varato – non può e non deve sostituire in toto i genitori. Svolge un ruolo educativo e formativo molto importante, tant’è che ad essa è demandata la creazione delle basi culturali dello studente, ma non può essere vista come l’alternativa del padre e della madre. Famiglia e scuola sono due realtà educative che si devono integrare ciascuna con il proprio compito. Purtroppo oggi assistiamo spesso ad una contrapposizione tra le due realtà educative come se fossero in conflitto perenne. Il ruolo del docente è mal vissuto da genitori troppo protettivi e permissivi, le regole vigenti in una comunità come la scuola vengono contestate e sminuite agli occhi dei minori – e anche in questo caso compaiono violenze non solo verbali -, come se gli stessi debbano essere sempre protetti anche quando l’evidenza è disarmante – i problemi comportamentali – ed ecco la contrapposizione che genera confusione nei bambini e negli adolescenti.

Scuola e famiglia dovrebbero avere obiettivi comuni e favorire insieme lo sviluppo armonico della personalità. Ma oggi in molti casi non è così.

L’istruzione è il cardine per una svolta

Come rimediare a questa progressiva decadenza? Prima di tutto, bisogna rendersi conto che nulla potrà modificarsi in tempi brevi. L’auspicio è rivolto a un ricambio generazionale ove l’istruzione divenga il cardine di una crescita culturale sempre più ampia e consolidata. Per l’Italia deve essere la principale risorsa. Ma bisogna mettere in atto una riforma strutturale della scuola che valorizzi le competenze dei docenti anche con retribuzioni migliorative per chi dimostra preparazione e desiderio di crescita. Il tutto può essere attuato se si esce da quell’egualitarismo fortemente voluto e difeso dai sindacati – con il placet un po’ di tutti i partiti – che appiattisce la professione di insegnante in maniera inaccettabile. Allora sì che si potrà parlare di stipendi adeguati, in linea con quanto percepiscono i docenti dei maggiori Paesi europei. Persino Cipro riconosce retribuzioni più alte a chi insegna. In passato si è cercato di favorire la formazione dei docenti agganciandola al miglioramento economico i cosiddetti scaglioni stipendiali proposti dall’allora ministro Luigi Berlinguer: la rivolta delle organizzazioni sindacali fu immediata, nessuna differenziazione di merito, ma appiattimento generale.

Una vera riforma dovrebbe partire da qui, valorizzare chi ritiene che l’insegnamento sia una professione e non un mestiere in attesa del 27 del mese.

Si conseguirebbe così quel pieno riconoscimento delle capacità di crescita intellettuale dei giovani con un percorso formativo di notevole portata, con un’ampia e articolata valorizzazione della ricerca – oggi così trascurata -, senza più dover registrare quella fuga di cervelli che periodicamente dobbiamo registrare.

Il resto, evoluzione e crescita del Paese in ogni ambito, verrebbe a cascata: nei Paesi del Nord Europa a suo tempo si intraprese questa strada, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, basta cercare qualche dato significativo, Pil, assistenza anche ai giovani studenti e alle giovani coppie, un costante perfezionamento della ricerca… E conseguiremmo anche quella piena ottimizzazione del turismo – qualcuno l’ha definito il nostro “oro nero” – che ancora latita, anche in questo caso per carenza di progetti strutturali coordinati o addirittura assenti in regioni, in particolare al Sud, che favorirebbero una crescita costante in termini economici e occupazionali.

Se non si attua un percorso virtuoso, che può prendere avvio anche dalla sostenibilità applicata a molteplici ambiti produttivi e di servizio, inclusa la pubblica amministrazione, l’Italia è destinata a divenire l’anello debole in ambito europeo, data la progressiva, perduta credibilità di politici di basso profilo. Molto dediti all’insulto.

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