QUEL WELFARE AZIENDALE
ANCORA POCO DIFFUSO

Il dipendente soddisfatto è il primo ambasciatore dell’azienda

Mentre imperversava la battaglia d’Inghilterra – tra il luglio e l’ottobre del 1940 -, il primo ministro inglese Winston Churchill guardava oltre. Vedeva la gente morire, le macerie delle città, ma da statista di alto profilo egli pensava già a un Paese fuori dalla guerra, da rinnovare in modo sostanziale. E venne il momento di tradurre le proprie riflessioni in un progetto: nel ’41 nominò William Beveridge, un alto dirigente pubblico, presidente di una commissione governativa istituita per mettere ordine nel settore delle assicurazioni sociali. Beveridge andò oltre, realizzando un ritratto di politica e protezione sociale senza pari. Il tutto è raccolto nell’ottimo libro, a firma del dirigente, “La libertà solidale – Scritti 1942-1945” (Donzelli, 2010), un documento che delinea, con grande rigore, il welfare nel Regno Unito, un obiettivo fortemente voluto da Churchill, da notare, un conservatore, che non voleva veder patire il popolo inglese, per la scarsità di mezzi, risorse economiche, carestia di approvvigionamenti.

A distanza di 80 anni il tema è quanto mai attuale. Ma non dimentichiamo che  in Italia, nel ventesimo secolo, vi sono stati ottimi esempi di welfare applicato però all’attività aziendale: ricordiamo Luisa Spagnoli, quando ancora lavorava nel settore del cioccolato, che aveva creato una sorta di asilo interno all’azienda – siamo negli anni 20 – affinché le dipendenti potessero accudire i propri figli avendoli con sé; Adriano Olivetti, definito da qualche confindustrialista di allora – siamo negli anni 50 – l’industriale rosso o comunista, anch’egli molto attento a soddisfare le esigenze dei propri dipendenti a partire dalla quotidianità; il Villaggio Crespi e l’omologo della Lane Rossi sono strutture che testimoniano la volontà di alcuni imprenditori di offrire ai propri dipendenti anche una casa. Anche oggi non mancano esempi di aziende il cui management sa quanto sia importante far sì che i dipendenti si trovino a proprio agio: non è solo una questione di fidelizzazione, aspetto per altro rilevante, ma sa anche che il dipendente soddisfatto è il primo ambasciatore dell’azienda: ne parla bene a un pubblico indifferenziato di parenti, conoscenti, interlocutori occasionali. Anche così si afferma il buon nome di un marchio.

Oggi, In generale, con il termine welfare aziendale s’intende l’insieme delle iniziative di natura contrattuale o unilaterali da parte del datore di lavoro volte a incrementare il benessere del lavoratore e della sua famiglia attraverso modalità “alternative” alla retribuzione che possono consistere sia in somme rimborsate, sia nella fornitura diretta di servizi, come l’assistenza sanitaria integrativa, la previdenza complementare, un sostegno economico alle famiglie e all’istruzione.

 

Tutto bene, tutto chiaro, allora? Non proprio. O almeno non del tutto. C’è abbondanza di letteratura in proposito, ma già l’Istat proprio nel marzo di quest’anno segnalava che il 53% delle imprese hanno svolto almeno un intervento sotto l’aspetto del welfare aziendale. Il dato è modesto, perché quel “almeno un intervento” non è per nulla soddisfacente, per nulla in linea con i principi della sostenibilità ai quali il welfare fa riferimento: la sostenibilità contempla una serie di interventi, connessi fra di loro, che ha come soggetto di riferimento l’uomo e il suo benessere. Quindi fare il “compitino” – un solo intervento – non deve equivalere a un completo soddisfacimento della ricerca del benessere per i propri dipendenti.

Torneremo sull’argomento per svolgere ulteriori approfondimenti con l’intervento di alcuni studiosi e manager.

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