LA CRESCITA DELLA FINANZA INSIEME A QUELLA TECNOLOGICA

Giorgio Brunetti *

 

La nostra società ha cavalcato una rivoluzione nei gusti, nei comportamenti e nei costumi, trainata essenzialmente dal progresso tecnologico. Il filosofo Emanuele Severino ha denunciato il fatto che l’epoca delle ideologie è oramai tramontata e che siamo entrati nell’era della tecnologia. La ICT ha sconvolto il mondo, determinando profonde innovazioni in tutti i campi e rendendo possibili scoperte che in precedenza erano solo sulla carta, non potendo essere realizzate a causa dell’enorme mole di calcoli di cui avevano bisogno.

Non sono mancate certo definizioni per l’epoca che stiamo vivendo. “Società dell’informazione”, per indicare la mole di informazioni nella quale siamo tutti immersi, o “società della comunicazione”, per segnalare le enormi potenzialità di far circolare e imprimere nell’opinione pubblica immagini non rispondenti alla realtà, offrendo in chi ha mezzi per farlo la tentazione di avvalersene. Ma anche “società della conoscenza”, per indicare il vertiginoso accrescersi delle conoscenze in tutti i settori e la conseguente necessità per i cittadini e per le imprese di progredire a loro volta in termini di conoscenze, senza le quali i primi sono destinati a ruoli subalterni e le seconde a scomparire dal mercato.

Meno frequente è l’impiego dell’espressione “società del rischio”, sebbene il moltiplicarsi delle innovazioni avrebbe dovuto riservare a questa definizione un’attenzione maggiore. Si parlava di rischio anche negli anni passati, ma forse non si valutava adeguatamente il significato della parola. Rischio, ce lo conferma il dizionario, è “eventualità di subire un danno”. Il danno veniva invece trascurato, pensando che si trattasse di un’eventualità remota. Più corretta, tuttavia, sarebbe stata la parola “incertezza”, dove il rischio non è calcolabile.

Una svolta scientifica

Nel campo della finanza, in particolare, l’innovazione e il rischio sono andati di pari passo. D’altro canto, assieme alla ricerca scientifica, la finanza è un settore veramente globale. Non solo Londra, New York o Tokio, ma tutte le Borse sono piazze che lavorano in tempo reale. Ogni cittadino, collegandosi in rete, può sapere ogni momento come si evolvono le quotazioni o qual è l’andamento dei tassi e dei cambi. In questi anni si è assistito, sull’onda dell’innovazione, a una svolta scientifica di questa disciplina. Si sono assegnati molti premi Nobel a studiosi di finanza, le cui scoperte hanno trovato veloce applicazione nei mercati. Il fattore di rischio “beta” di Sharpe lo si ritrova ormai come un indicatore fondamentale del titolo, assieme alla capitalizzazione di Borsa. Non parliamo poi degli animal spirits che in quest’industria tumultuosa hanno potuto soddisfare le loro attese di arricchimento e di potere.

La leva finanziaria ha trovato un uso esteso, sterminato si potrebbe dire, grazie all’abbondante liquidità immessa nei mercati, complice il comportamento opportunistico degli operatori e la colpevole negligenza delle autorità, che avevano il compito di regolarla.

Che il debito sia “croce e delizia” di chi se ne serve, è cosa risaputa. Solo che gli atteggiamenti sono ben differenti in relazione all’epoca in cui si vive. In questi anni la leva finanziaria era un’opportunità da sfruttare, mettendo in secondo piano i parametri volti a misurare la solidità aziendale. La Borsa addirittura puniva le aziende che non sfruttavano le potenzialità di indebitamento che possedevano. Non parliamo poi delle operazioni di finanza straordinaria che utilizzavano i multipli con parametri, come l’Ebitda, sopra ogni livello ragionevole. Ora queste realtà aziendali, affogate dalla leva, sono in grande sofferenza e alcune hanno già dichiarato default. È paradossale che ora, per uscire dalla crisi del debito privato, si sia passati al debito pubblico, ai debiti sovrani, area dalla quale originano le odierne preoccupazioni. Dopo la crisi immobiliare dei mutui subprime, la crisi finanziaria e quella economica, si è aperto un periodo che qualcuno ha chiamato della “nuova normalità”, nel quale una modesta ripresa convive con la stagnazione e la fiducia si accompagna allo sconforto.

Anche il compianto Ralf Dahrendorf coglieva in una sua acuta analisi il ruolo che in questi anni ha svolto il debito. Vedeva un passaggio dal “capitalismo del risparmio”, di matrice calvinista (nell’aldilà si trova il luogo della ricompensa per il sudore versato nell’aldiquà) al “capitalismo del debito”, un capitalismo avanzato che agisce con il “fiato incredibilmente corto”, che anticipa tutto, i consumi e gli investimenti, tanto da formare una panna montata. Nel caso estremo dei commercianti di derivati, significa che essi hanno già passato di mano il denaro fittizio, prima ancora di porsi il quesito di quanto esso realmente valga. Un comportamento diffuso, figlio di una frenesia più generalizzata che andava dalle “trimestrali” delle società quotate ai manager che non fornivano più prospettive di lungo termine, ai tourbillon dei manager stessi che passavano da un’azienda all’altra con liquidazioni irragionevoli. Secondo Dahrendorf, occorre riportare al centro delle decisioni un concetto che negli anni del “capitalismo del debito” è stato dimenticato, ovvero quello degli stakeholder. In realtà, molte imprese dell’economia reale non lo hanno mai dimenticato, a cominciare da quelle che rivolgono l’attenzione al cliente, che è “il motivo per cui l’impresa vive e opera”. E sono proprio quelle che vivono meglio questo momento difficile.

La posizione di dominio

Un altro aspetto su cui riflettere è quello del valore e del riferimento primario all’azionista da parte dei mercati finanziari. La domanda è se il valore per l’azionista tenga conto o meno delle attese degli altri interlocutori sociali (lavoratori, fornitori, clienti, ambiente). C’è infatti un’evidente posizione di dominio dell’azionista di controllo che tende a dirottare verso di sé il valore prodotto dagli altri interlocutori sociali che vengono, in tal modo, relegati a ruoli meramente strumentali. Tuttavia, la dottrina aziendale ha sempre sostenuto che il benessere degli azionisti nel lungo periodo si ottiene soltanto se vengono assicurati stabili rapporti con gli altri interlocutori e se si crea una reputazione aziendale basata sull’integrità e sull’equità. Ma è evidente che occorre distinguere tra “valore” e soggetti imprenditoriali e manageriali, assegnando soltanto a questi la responsabilità di agire in modo eticamente corretto, un modo che tenga conto delle giuste attese degli altri soggetti coinvolti. Dal momento che l’impresa non può essere considerata un “agente etico autonomo”, il valore alla fin fine risente molto del comportamento dell’imprenditore e del management.

In chiave economico-aziendale la crisi, dalla quale non siamo ancora usciti del tutto e che rischia ora di riapparire, può essere interpretata come il fallimento delle “cultura degli eccessi”, ovvero la “riscoperta dei fondamentali del fare impresa”. Debito sì, ma attenzione al rischio elevato che esso comporta; finanza indispensabile per qualsiasi attività economica (lo vediamo proprio in questi momenti), ma attenzione a non tradurre tutto in chiave finanziaria; la remunerazione incentivante agli operatori è prassi commendevole, ma attenzione che questa non diventi l’arma per ottenere tutto, per inventare qualcosa che dà tanto reddito ma anche alti rischi, oltre che sconvolgere qualsiasi principio di equità. La crisi sottolinea l’importanza dell’equilibrio, della funzionalità economica duratura, indicando un ritorno alla cultura degli equilibri che può costituire un riconoscimento per le imprese virtuose e un monito per le altre, ma che potrebbe anche modificare strutturalmente l’economia e la nostra società. Più sobrietà nei consumi e maggior ricerca di sostenibilità, insomma.

Osservando da vicino le imprese possiamo dire che vi sono opportunità e rischi, come è normale che avvenga in qualsiasi fase critica. In questo momento entrambi gli aspetti sono esasperati. Difficile fare generalizzazioni senza tenere conto delle filiere e dei settori in cui le imprese operano, per non parlare degli assetti proprietari che adottano.

I rischi sono elevati se non si seguono le regole della funzionalità economica duratura di matrice zappiana, ovvero degli equilibri da perseguire nella continuità (l’azienda vive in quanto si trasforma). Corre rischi chi si è troppo indebitato e chi non ha un posizionamento strategico adeguato. Il rischio è che molti imprenditori gettino la spugna, sentendosi inadeguati o più spesso maldisposti a rischiare ancora. Così molti altri, quelli che stavano per lasciare il testimone, vedono la crisi come una “botta di gioventù”, per riprendere il timone dell’azienda, rallentando il passaggio generazionale.

In altra chiave la crisi può essere vista come un’opportunità, specie per le aziende equilibrate, quelle che il principio dell’equilibrio lo hanno sempre praticato, quelle che guardano e investono a lungo termine.

 

  • Brano tratto dal libro Artigiani, visionari e manager, pubblicato da Bollati Boringhieri, Torino, anno 2012 (pagg. 125 – 129).

 

 

 

 

 

Giorgio Brunetti Laureato in Economia e Commercio – Università Cà Foscari di Venezia (1960) Diploma di Organizzazione aziendale al CUOA – Università di Padova (1963). Libero docente in Ragioneria generale e applicata (1967). Professore emerito di Strategia e politica aziendale all’Università Bocconi di Milano dal 1992 al 2006. In precedenza, ha insegnato, prima come assistente, professore incaricato e quindi come professore ordinario all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Docente presso vari enti e società di formazione. Consigliere di amministrazione in Chase Gemina (1989-96), RCS Editoriale Veneta (1988-1993), SME (1995), GS Supermercati (1995-1997), De Longhi (2001-2003), Messaggerie Libri (1984-2007), Carraro (1997-2008), Messaggerie Italiane (dal 2005), Autogrill (1996-2011), Benetton Group (dal 2005) Revisore dei conti all’Autorità per l’Energia e il Gas (dal 2003) Revisore dei conti alla Fondazione Levi (1986-1992), Vice Presidente Fondazione Teatro La Fenice (1998-2001; 2010 -), Revisore dei conti alla Fondazione Cini (dal 1996), Consigliere di amministrazione dell’Università degli Studi di Venezia Ca’ Foscari, (2004-2006; 2009-), Consigliere di amministrazione della Fondazione di Venezia (2006-2007).

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