MENTI DINAMICHE E INNOVATIVE: DALL’INCONTRO NASCONO LE IDEE

Marta Basso

 

E guarda il caso ha voluto che fossimo salvi

ma salvando ha sovrascritto su file precedenti

prima di noi non è rimasto niente

(“Lettera al prossimo” – Eugenio in Via di Gioia)

 

La crescita economica è sempre stata spinta fortemente dai distretti, non solo dalla prima rivoluzione industriale, com’è facile aspettarsi, ma anche e ancora durante la quarta, quella che ha unito il digitale ai processi e ai prodotti fisici. Ma torniamo indietro alla definizione concettuale stessa di distretto. Secondo Porter, i distretti sono “concentrazioni geografiche di aziende e istituzioni di un particolare settore interconnesse tra loro. […]”.

Si estendono verticalmente ai canali e ai clienti e orizzontalmente ai produttori di prodotti complementari e alle aziende di industrie collegate dalle competenze, dalle tecnologie, o dagli input comuni. Infine, molti distretti includono istituzioni governative o di altro tipo – come università, agenzie di rating, think-tank, operatori che lavorano nella formazione, e associazioni di categoria” (Porter, 1998).

Era il 1989 e Porter già parlava dei think-tank come un importante giocatore nei distretti industriali – inoltre, la previsione perfettamente azzeccata, nella cornice dell’industria 4.0, è che il ruolo dei distretti fisici è o integrato o sostituito da altre “interconnessioni” concentrate.

In breve, gli incubatori sono i nuovi distretti. O meglio, hanno donato ai distretti una nuova vita. Aristotele, nel IV secolo avanti Cristo, teorizzò l’ormai celebre “l’uomo è un animale sociale per natura” e ovviamente lui si divertiva sicuramente di più a filosofare con i suoi amici Zenocrate e Teofrasto che da solo. Se oggi avesse dovuto fare un’application per un posto di lavoro, si potrebbe definire un team player, e credo fermamente che sarebbe molto contento di sentire che oggi esistono posti, come il greco agorà, dove menti dinamiche e innovative si incontrano per creare qualcosa di importante.

E essenzialmente, non sono questo gli incubatori? Ad oggi, rappresentano sempre di più i distretti contemporanei, sia cresciuti in distretti già esistenti, come nel caso di Detroit, o l’ecosistema in Eindhoven attorno alla Philips, sia nati da un’idea balenata nella mente di qualcuno, come H-Farm, in un’area rurale intorno a Treviso, che ha riqualificato un’antica villa veneta e tutta l’area circostante, e che ad oggi è uno dei più famosi incubatori italiani nel mondo.

 

Un fallimento rovinoso

 

Il caso studio di Detroit è ai limiti dell’incredibile: la città, la cui economia era basata all’epoca principalmente sul grande stabilimento di Chrysler Automobiles e su tutte le aziende satelliti, era uno dei più grandi distretti del settore automotive degli Stati Uniti. Almeno sino a che non è stato dichiarato in bancarotta dallo Stato del Michigan il 18 luglio 2013, ed è l’esempio più importante di bancarotta comunale nella storia degli Stati Uniti, con un debito che si aggirava attorno ai 18-20 miliardi di dollari. Le foto della città in rovina sono ormai celeberrime, con uffici abbandonati, case lasciate nella più totale incuria, opere pubbliche mai finite. Ma solo dopo cinque anni dall’infausto evento, le luci dei lampioni sulle strade hanno cominciato a riaccendersi grazie a una serie di investimenti privati di grandi fondi o di importanti aziende come Quicken Loans. Il risultato? Detroit è trasformata da nowhere land a un polo molto attrattivo per le startup.

Gli americani dicono che l’imprenditorialità è nel DNA di Detroit, e forse è proprio per questo che è stata salvata e non è diventata una sorta di città-museo come molte altre città abbandonate nello sconfinato entroterra degli States. Ai primi temerari, attratti probabilmente dai prezzi bassissimi di case, uffici, e vita in generale, sono seguiti moltissimi altri, come Melissa Butler, fondatrice di “The Lip Bar”, azienda che opera nel settore dei cosmetici: “Quando ho sentito che Detroit stava cambiando da città della disperazione a opportunità, ho spostato subito il mio brand per far parte del rinascimento”. Detroit non è più solo la casa di Chrysler (il famoso slogan “Imported from Detroit”, ricordate?), ma una delle città statunitensi con la scena di startup più vibrante – e meno costosa – del Paese.

Soffermiamoci per un attimo anche sul caso studio emblematico di Eindhoven. Siamo alla fine degli anni ’80, l’economia della città è in un momento di stallo senza precedenti: Philips e DAF, le sue aziende più grandi, sono in profondissima crisi. Philips impiegava quasi 100mila persone in tutti i Paesi Bassi, ma dopo un processo di ristrutturazione che ha esternalizzato le attività di ricerca e sviluppo, Philips ha chiuso moltissime linee di produzione che avevano sede nella città e si è trovata a un punto che poteva essere di non ritorno. La risposta di Eindhoven è stata estremamente resiliente: ha reagito creando diversificazione, lontana dalla dipendenza da Philips e DAF, creando interconnessione tra città, aziende, università e centri di ricerca, e aprendo, nei primi anni duemila, l’High Tech Campus, un incubatore di impresa con focus sulle nuove industrie.

 

Nuova linfa vitale

 

Il punto interessante di questo caso è che, grazie all’incubatore e al focus sulla tecnologia nell’ecosistema di Eindhoven, Philips è tornata ad essere importante – pur senza essere fondamentale – in quanto ha trovato nuova linfa vitale nelle dinamiche del sistema stesso. In particolare, il principio che governa questo ecosistema è l’open innovation, il modello sul quale si basa qualunque tipo di progetto di investimento sull’innovazione early stage, uno schema che si allontana moltissimo dalle leggi che hanno governato i distretti nel secolo scorso e ne sono state la principale fonte di vantaggio competitivo. La città olandese non è più dipendente da due sole realtà, ma creando diversificazione basata su questo modello di open innovation, è riuscita anche a superare i Paesi Bassi e l’Europa tutta in termini di contributo di ricerca e sviluppo privato rispetto al contributo pubblico.

Eindhoven è un esempio che dovrebbe costituire da best practice, ma non è l’unico caso in Europa. Ne esiste qualcuno anche nel nostro Paese. “Sono sempre più stupito che, a livello politico, questa narrativa non sia così popolare come dovrebbe, specialmente in aree con distretti ad alta concentrazione – chiosa Christian Gironi (Business Development manager di Innovami) – gli imprenditori della nostra zona bussano alla nostra porta praticamente ogni giorno per fare due chiacchiere con le startup, o per chiedere aiuto e consulenza per la creazione e promozione di corsi su temi innovativi, o semplicemente per sponsorizzare i nostri eventi”.

Innovami lavora in una delle zone più prosperose d’Italia che, storicamente, coi suoi marchi come Ferrari, Lamborghini, Barilla, Ducati, ha portato il Made in Italy in tutto il mondo; ma dove, non così paradossalmente, meno del 10% delle 350.000 aziende della regione ha più di 250 impiegati. “Una regione di piccole e medie imprese – continua Gironi – che sono costantemente in contatto con le nostre multinazionali. E nonostante questo, le startup tendono a pensare che nessuno voglia ascoltare le loro idee o comprare i loro prodotti, specialmente nel caso delle aziende più piccole, che assumono agli occhi dei giovani imprenditori connotati di ‘dinosauri’. Null’altro che pregiudizi”.

Gironi ha ragione, soprattutto se si considera che l’Emilia Romagna è un’eccellenza in termini di innovazione nel nostro Paese. “Questo è il motivo per cui, nei nostri programmi, esiste un momento “tuffo dal trampolino” – un momento in cui, dopo qualche sessione di coaching sul campo insieme a noi, mandiamo le startup direttamente dai potenziali clienti, o fornitori, o competitor della nostra zona per fare due chiacchiere”.

Non a caso, il progetto futuro di Innovami si chiama “incubatore diffuso”, cioè un incubatore aziendale portato all’interno del contesto corporate da Innovami stesso. L’idea è nata dalla lungimiranza del presidente Davide Baroncini: “Abbiamo capito che forse dovevamo concentrarci più sulle aziende che sulle startup, capirne i bisogni e agire di conseguenza. Con la nostra esperienza possiamo portare non solo un framework interpretativo e culturale diverso, ma anche con il nostro network portiamo le startup ad essere incubate nelle aziende stesse”.

 

La possibilità di sopravvivere

 

Ma quali skill sono fondamentali per le startup in un momento così critico della loro vita? Gironi apre qui una questione basilare: “Le startup e i distretti hanno un punto di incontro fondamentale: sembra che entrambe lavorino principalmente grazie alle hard skill; in realtà, è vero piuttosto il contrario – le soft skill sono vitali, e i distretti le hanno sviluppate durante decenni, se non centinaia di anni. A volte mi sembra che i nostri ragazzi debbano capire la necessità di fare sviluppo commerciale, altrimenti, per quanto valido possa essere, il loro progetto fallirà di sicuro”.

Come direbbe Gary Vaynerchuck: “Se non ti piace vendere, hai perso”. Fortunatamente, Gironi lo sa bene e sostiene che “le startup devono solo sviluppare quell’unica skill per duplicare la loro possibilità di sopravvivere. Insegniamo agli imprenditori il business development senza corsi, ma direttamente sul campo”. Gironi ammette anche che a volte si ritrova a sperare che la prima visita commerciale delle startup vada male, cosicché gli imprenditori possano imparare i trucchi del mestiere il prima possibile e migliorare con la pratica.

“Sfortunatamente, l’assenza di skill commerciali è una delle maggiori cause di fallimento delle startup, secondo la nostra esperienza. Lanciano il loro prodotto, crescono e non realizzano che hanno bisogno di assumere molti più commerciali”. Jess Mc Gahan, Head of Brand presso LMarks, gioca nella stessa squadra di Gironi e Vaynerchuck: “Abbiamo sempre insegnato alle startup che devono cercare fondi ed investimenti.

Oggi, dobbiamo insegnare loro che l’unico modo per sopravvivere è vendere” e facendo davvero profitto, non stando seduti sul capitale. Ricordate i numeri inquietanti sui bisogni delle startup, che secondo il 45% dei rispondenti al sondaggio di Telefonica18, è rappresentato dalla necessità di confronto costante con professionisti esperti e investitori? A proposito di questo, ecco Danilo Rivalta con un laconico: “Queste skill sono cruciali”. Rivalta ha fatto della connessione tra startup e professionisti una missione: è infatti CEO e founder di The Go To Market Company, una startup basata a Milano il cui obiettivo è la connessione tra startup e professionisti nell’ambito commerciale e vendita con esperienza.

Filmando alcuni video insieme a Danilo sul tema del generational bridge, appare evidente che il gap generazionale esiste solo in un posto: la nostra mente. “Le startup pensano: un commerciale con decenni di esperienza non lavorerebbe mai per una startup. I professionisti pensano: le startup crederanno che sono troppo vecchio”. Nulla di più sbagliato: hanno bisogno disperatamente gli uni delle altre, e viceversa, anche in fase di testing. Alla fine, le aziende non sono fatte altro che da persone e, se coordinate correttamente, le persone lavorano in maniera più intelligente quando lavorano insieme. Lo stesso vale per le startup, specialmente quelle in early stage, un momento in cui le competenze sono anche condivise oltre che create. E non menzioniamo nemmeno, visto che lo abbiamo analizzato approfonditamente prima, le partnership con le università, le scuole e le istituzioni educative.

Se il lettore viene da un’area ad alta concentrazione di distretti, specialmente se basati su un’industria che ancora non ha subito una grande disruption, sarà ormai persuaso che una riconversione del territorio possa anche passare da un iniziale investimento in innovazione. Sono sorpresa che molte istituzioni governative non abbiano ancora pensato a questo per riqualificare aree ormai depresse… In ogni caso, i distretti non dovrebbero essere assolutamente dei player economici da ignorare quando si tratta di spingere l’innovazione.

Secondo Stefano Micelli, professore all’Università Ca’ Foscari di Venezia, e autore di un libro illuminante sul futuro del lavoro Futuro artigiano, arriva a teorizzare senza mezze misure che “il nuovo artigianato, non solo in Italia, si vuole alla testa di un movimento che si propone di ridefinire le categorie dell’innovazione e del consumo”. Nell’analisi di Micelli il compito dei distretti nella creazione e lo sviluppo dell’innovazione non solo è importante, ma riveste un ruolo chiave: non a caso, si occupa ampiamente della commistione tra avanguardia e artigianalità nel triangolo dei motori dell’Emilia Romagna.

Come direbbe Gironi: “Alla fine, bisogna restituire (give back) al territorio in cui si lavora. Si ha sempre questa responsabilità sociale e non solo bisogna rispettarla, ma anche onorarla”. Essenzialmente, un incubatore è un social business. E purtroppo, gli esseri umani spesso tendono a dimenticare le lezioni di chi è venuto prima, e quindi, qui, ricordiamoci di Aristotele. Come esseri umani sprigioniamo il nostro potenziale quando pensiamo insieme, lavoriamo insieme e agiamo insieme, perché siamo in grado di condividere i punti di forza e superare le debolezze. Questo è ovviamente riflesso nelle aziende, comprese le startup. Speriamo di vedere fiorire molto di più i posti in cui le idee viaggiano più rapide verso la loro realizzazione, specialmente in quei luoghi in cui la pigrizia, se non l’inerzia, negli ultimi tempi ha preso il comando.

 

  • Paragrafo tratto dal libro “La duplice alleanza”, pubblicato da Franco Angeli Editore, Milano, anno 2019 (pagg. 73 – 79).

 

 

 

 

 

 

Marta Basso, si è laureata in Management a Ca’ Foscari e alla Hult International Business School. È imprenditrice e blogger. È stata CEO for One month di Adecco Group Italy nel 2017. Lavora come consulente in ambito innovazione early-stage, cura progetti di collaborazione start up – aziende e intrapreneurship. È anche co-founder di Generation Warriors, azienda di consulenza e produzione media che mira a risolvere il problema del generation gap.

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