AUTOSCATTO – Va bene farsi i selfie, ma con una giusta moderazione. Foto Freepik

Selfie: luci e ombre dell’autoscatto

Le donne più “narcise” degli uomini. Ottenere maggior considerazione: questo lo scopo, spesso illusorio, dell’autoscatto, alla ricerca talora ossessiva dei like

Andy Wharol, artista tra i più influenti del XX secolo, esponente di spicco della pop art disse “Nel futuro tutti saranno famosi 15 minuti”. Oltre ad essere stato uno dei primi a trasformare un suo autoscatto in opera d’arte è anche vero che la sua citazione si è rivelata, per alcuni versi, profetica.

Con l’avvento dei social i “15 minuti di gloriahanno sicuramente dato l’impressione di allungarsi, soprattutto per coloro che ne fanno uso smodato. Una delle mode più facilmente riconducibile al mondo social è soprattutto il selfie.

Il fenomeno dell’autoscatto nasce ufficialmente nel 2004, quando un utente di Flickr, piattaforma per la condivisioni di immagini e foto, ha utilizzato per la prima volta la parola selfie. Il neologismo è efficace e si diffonde in tempi rapidi, diventando nel 2013 la parola dell’anno secondo L’Oxford Dictionary. Nel 2015 selfie viene inserita anche all’interno del dizionario italiano Zingarelli, diventando ufficialmente un anglicismo adottato anche da noi italiani.

Ma quanto il fenomeno del selfie è diffuso? Le ricerche sono numerose e condividono il dato che vede i giovani tra i 18 e i 24 anni come maggiori utilizzatori del selfie. Nel nostro Paese le donne si scattano più foto degli uomini.

I motivi che spingono al selfie sono stati oggetto di studio psicologico. Oltre che stabilire i fattori scatenanti è bene anche capire il confine tra utilizzo normale e disturbo.

Vi sono diverse scuole di pensiero rispetto a quali meccanismi mentali scattino in coloro che desiderino condividere una propria immagine sui social network.

Da un lato si evidenzia una forma di narcisismo rispetto all’evento. Il circolo vizioso legato a questa possibilità potrebbe essere: postare per ottenere consensi, più like ottengo più sono desiderato. Una chiave di lettura in tal senso non solo denoterebbe un aspetto narcisistico, ovvero la necessità di percepire ammirazione, ma anche un’insicurezza di fondo che può essere colmata provvisoriamente con il consenso altrui.

Questo atteggiamento è particolarmente riscontrabile negli adolescenti, i quali spesso si spingono in foto in cui mostrano il proprio a scapito della tutela della loro privacy, e sfociando talvolta nel vero e proprio sexting ( immagine e testi sessualmente espliciti condivisi tramite smartphone).

È altresì vero che i social hanno proprio come idea di base la condivisione di sé, di ciò che si sta facendo, con chi e dove. Condividere una propria immagine può essere un modo per restare in contatto con gli amici, sperando siano quelli del mondo reale, e per confrontarsi con loro rispetto alle proprie esperienze  o a ciò che accade nella vita. In questo non vi è nulla di preoccupante. Non è dunque il selfie di per sé qualcosa di negativo, essendo una conseguenza coerente e naturale del mondo digitale.

Il passaggio tra ricorso adeguato del selfie a patologico risiede nella dipendenza che suscita. LaSelfie Syndrome è stata recentemente riconosciuta dall’Associazione Psichiatrica Americana (A.P.A) come disturbo mentale.

Nel dettaglio esso viene suddiviso in:

  • Saltuario: le persone si fotografano almeno 3 volte al giorno senza postare però poi l’immagine sui social.
  • Acuto: le persone si fotografano almeno 3 volte al giorno e condividono poi l’immagine sui social.
  • Cronico: vi è una componente ossessiva che spinge la persona a fotografarsi e a postare le foto almeno 6 volte al giorno.

Fatte le dovute distinzioni è opportuno che coloro che ricorrono spesso al selfie capiscano quali siano le reali ragioni che li spinge a condividere nel virtuale le proprie immagini. Se la risposta risiede nella necessità di avere consensi, c’è qualcosa che probabilmente non va e sarebbe opportuno prenderne coscienza.

Lo stesso pensiero vale nel momento in cui abbiamo il pensiero che tutto ciò che non viene condiviso sui social network è come se non fosse realmente vissuto.

Ricordiamoci infine che i social ci permettono di mostrare una parte di noi, verosimilmente quella che desideriamo condividere. Quando diventa troppo, ricordiamoci quindi di smettere di cercare il nostro riflesso migliore nei like di Facebook, Instagram, etc., e ricordiamoci che siamo i protagonisti della nostra vita (reale) e della nostra quotidianità.

Laddove si riscontrasse invece una vera e propria dipendenza, chiedere un supporto psicologico potrebbe essere un primo passo per superare la problematica.

Alessia Corticelli  – Psicologa

Condividi
Share

Commenti

be the first to comment on this article

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Vai a TOP