MILANO OGGI - Via Padova e una veduta del Quartiere Gallaratese.

Milano, le periferie trascurate tesoro di culture in fermento

Da una parte la città nuova, con splendidi edifici; dall’altra, i quartieri ove il tessuto sociale è da ricostruire. Ma le iniziative non mancherebbero…

(In home page) MILANO D’UN TEMPO – Nino de’ Pietro – Milano. Trattoria del Risveglio, 1970 (Raccolte Museali Fratelli Alinari – archivio De Pietro, Firenze).

Il cielo sopra Milano e noi là, in un volo immaginario. Guardiamo giù e molto brilla, in questa città nuova, ricostruita, più bella. Brilla l’acqua della Darsena, brillano le luci di Fontana, splendono piazza Gae Aulenti e i grattacieli di Citylife. Ma dall’alto lo sguardo è ampio, e qualcosa luccica anche lungo il perimetro: un brulicare di idee e fermento che fa muovere i cittadini come formichine operose nel cerchio estremo, quello delle periferie.

E sì, perché se gli edifici della moderna città che sale risplendono di luce propria, le case troppo spesso malandate, le vie senza vetrine e le strutture fatiscenti abbandonate da troppi anni di disattenzione possono brillare oggi di luce riflessa: quella che i cittadini, con caparbietà, e dribblando tra burocrazie e tasche semivuote, conferiscono a questi luoghi che prendono vita grazie a iniziative culturali e sportive, soccorso sociale e appropriazione più che debita di spazi altrimenti lasciati nel sonno, se non peggio.

È quanto emerge, ad esempio, dal racconto di Jacopo Nedbal, 27 anni.  “Stare al Galla” è il bel nome del gruppo di cui fa parte, riferito al Gallaratese, prima periferia che ci fa lasciare il volo, scendere a terra e guardare da vicino.

Un bacino elettorale

“Il gruppo è nato dalla considerazione che il nostro quartiere ci piace ma non ci va bene così com’è. È evidente la necessità di ricostruire un tessuto sociale. E pensiamo che l’unico modo per avere un quartiere più sicuro sia fare uscire la gente per strada. Facciamo molta attività di mutualismo: ad esempio le cene gratuite con colletta alimentare dove ogni volta arrivano ottanta persone. Cerchiamo di avere contatti con tutti – insiste Jacopo -, uniche pregiudiziali antifascismo e antirazzismo su cui non si transige. Col tempo ho capito che la via più fruttuosa è trovarci fra noi ragazzi a parlare delle problematiche del quartiere consapevoli di chi siamo e com’è il territorio, che noi  conosciamo. È un lavoro molto lungo che non abbiamo la pretesa di fare da soli, ma ci fidiamo solo fino a un certo punto delle amministrazioni. Sappiamo benissimo che per il Comune le periferie sono un enorme bacino elettorale, e un atteggiamento paternalistico non può essere una risposta strutturale.  Se il Comune fosse davvero interessato a rinfoltire le periferie – osserva il giovane – dovrebbe iniziare a mettere a disposizione spazi gratuitamente. Esistono solo gli oratori. Abbiamo ottimi rapporti con i parroci del quartiere però per chi non desidera che intervenga la dimensione religiosa non c’è alternativa”.

“E poi a noi piace il bello: vogliamo aggregarci – conclude Jacopo Nebdal – ma non mangiando male, guardando brutti film e stando in brutti posti. Spendersi, sporcarsi le mani, fare anche sacrifici per costruire e organizzare, sono l’unica possibilità per vivere bene”.

Sul sogno di bellezza ci rialziamo in volo, e viriamo di 180 gradi: da nord ovest a sud est: Rogoredo. Là c’è Silvio Anderloni, presidente del Centro di Forestazione Urbana e direttore di Boscoincittà.

“Siamo in un’area abbandonata da parecchio tempo e ahimè conosciuta come Boschetto della droga di Rogoredo. In realtà stiamo parlando di un totale di 80 ettari, di cui 15 di parco urbano (in buono stato) e 65 di area incredibilmente bella dal punto di vista paesaggistico, con presenza di animali, praterie ondulate e una veduta sull’Abbazia di Chiaravalle. Il luogo dello spaccio – aggiunge Anderloni – occupa 3 o 4 ettari, quindi parliamo di un fenomeno enorme e veramente triste dal punto di vista umano e della sicurezza, ma piccolo dal punto di vista dell’occupazione di territorio. Che però tiene lontani da tutto il resto. Il nostro tentativo, con Italia Nostra, è innanzitutto di ripulire tutte le aree intorno al boschetto. Contiamo per inizio estate di poter consegnare un percorso fruibile alla popolazione. Naturalmente con la collaborazione delle forze dell’ordine: occorre insistere su prevenzione, assistenza e controllo.  E serve che i cittadini si riapproprino della zona e la utilizzino. Ad aprile torneranno anche le pecore, a sistemare il prato. Noi siamo presenti  tutti i giorni, non si tratta di interventi di emergenza. Sono processi lunghi, però ogni giorno deve succedere qualcosa”.

Jacopo aveva detto di fidarsi “solo fino a un certo punto” delle istituzioni… aggiriamo allora le guglie e ci buttiamo a capofitto in pieno centro. Palazzo Marino, sede del Comune. Ci accoglie Elisabetta Strada, consigliera comunale.

“Sette anni all’interno del Consiglio comunale, sette anni che giro e guardo Milano con occhi diversi. Le zone sono diventate municipi, e il nostro obiettivo è di avere tanti centri e tanti municipi, e non più “la periferia”. Molto è stato fatto, e ancora si stanno facendo investimenti non solo di manutenzione, ma anche a carattere sociale. Ad esempio, è cambiato il Fuorisalone,  non più circoscritto in zona Tortona, e quest’anno arriverà anche in viale Monza. C’è stata la Prima della Scala diffusa con maxi schermi in molte zone della città, così come è stato per  Bookcity. Abbiamo deciso investimenti importanti: individuati 5 quartieri (Giambellino-Lorenteggio, Adriano-Padova-Rizzoli, Corvetto-Chiaravalle-Porto di Mare, Niguarda-Bovisa e Qt8-Gallaratese) abbiamo stanziato 540mila euro per un piano hardware/software: interventi strutturali e di tipo socio-aggregativo. L’anno scorso è stato firmato un accordo tra Comune, Regione e Ferrovie per la riqualificazione dei sette scali ferroviari. Nelle linee guida proposte da noi si chiedono mix abitativi: una convivenza che ribalta totalmente la filosofia della divisione”.

Le chiediamo quale sia il suo sogno per Milano. “Una città più pulita, più verde, con meno macchine, ancora più viva, senza zone tristi, con cose belle”, risponde Elisabetta Strada.

E così sembra che almeno le parole chiave “mischiarsi” e “bellezza” incontrino quelle di Jacopo.

Il Comune non risolve tutti i problemi

Il nostro volo immaginario ci sposta anche nel tempo: torniamo indietro di 13 anni e atterriamo al Centro Culturale Rosetum, via Pisanello, dove il 27 settembre del 2005 si è costituita la Consulta cittadina delle Periferie di Milano. Vi partecipano associazioni, circoli storici, gruppi di commercianti, comitati. E consiglieri di zona. Incontriamo il portavoce Walter Cherubini, che ha qualcosa da contestare: “l’organizzazione dell’Amministrazione comunale di Milano – i fatti lo dimostrano ogni giorno – non è strutturata per amministrare le periferie, essendo centralistica, deficitaria, in cronico ritardo”, scrive sul sito. Il tono deciso non cambia nelle parole che ascoltiamo dalla sua voce: “La periferia esiste perché esiste un centro. Periferia, a Milano, sono i territori che un tempo erano Comuni autonomi. Che sono stati annessi (annessi, non fusi), espropriati del loro centro amministrativo mentre  tutto si è accentrato a palazzo Marino. Le periferie hanno sostanzialmente una cosa in comune: la mancanza di una governance. Il Sindaco non è in grado di risolvere tutti i problemi – sottolinea Cherubini -, l’unica cosa che deve fare è decentrare. Cosa che invece non accade. Inizialmente lavoravamo come Coordinamento zona Ovest, soprattutto nell’ottica dell’incontro amministratore/amministrati.  A un certo punto ci siamo detti: I problemi della periferia ovest non si risolvono a ovest. Ed è così nata la Consulta. Bisogna avere un approccio sistemico. Il che vuol dire, ad esempio, che se il Comune fa nuove palestre, ma i campi non sono delle metrature corrette per l’agonistica, invece di avere nuovi centri sportivi abbiamo giovani atleti senza casa. Il sistema di regole e il meccanismo burocratico non sono adeguati a rispondere ai problemi, è un sistema autoconservativo. C’è bisogno di rigenerare socialmente questi quartieri. Utilizzare gli spazi vuoti, che ci sono. E non è una questione di soldi. Per quanto riguarda la cultura, nelle periferie è già sufficientemente innestata. 400 soggetti tra teatri, centri culturali, biblioteche e cori amatoriali. Il bilancio della Scala – che non ha fatto la “Prima” diffusa, ha fatto il cinema diffuso –  è di 125 milioni di euro. Il Piccolo prende 20 milioni. È chiara dunque l’attenzione se la misuriamo in termini di risorse dedicate”.

Chiediamo conto delle eccellenze a Giorgio Bacchiega, direttore del Centro Studi, ma la domanda così posta non gli piace. “È la rete delle periferie milanesi l’eccellenza.  Noi possiamo portare grandi nomi in sedi prestigiose delle periferie, oppure possiamo dare stimoli a coloro che già operano lì ogni giorno. Se scegliamo la prima ipotesi perdiamo la società civile. Avremmo potuto costruire il museo del 900 a Baggio, ma quanto avrebbe partecipato la popolazione al processo organizzativo e all’elaborazione dei contenuti?”

Ricchi di spunti di riflessione su un teatro di vite a volte drammatiche se non tragiche, a volte palcoscenico di commedie vivaci e felicità progettuali, riposiamo il nostro volo nello spazio e nel tempo tornando a terra,  ma negli anni ’50, quando estrema periferia era già la circonvallazione esterna, e piazzale Abbiategrasso un quartiere di cascine. Succede di ritrovarsi negli anni ‘50 alla Fondazione Luciana Matalon di Foro Buonaparte, 67 dove fino al 31 marzo si può visitare la mostra “Schegge di Periferie: il neorealismo a Milano. Fotografie di Nino De Pietro”.

E ci sediamo là, con la suggestione in bianco e nero di mondi lontani, quello dei bambini nei cortili arrampicati su finestre sbilenche, fuori da ogni controllo di sicurezza ma felici; e di mondi meno lontani, perché la foto della Martesana 1950 sembra uguale a quella di oggi, e in fondo ci piace tanto che sia così.

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