PER UN NUOVO “PRINCIPE” DALL’ITALIA ALL’EUROPA
Emanuele Felice *
Nell’interpretazione che ne offre il liberalismo, il Principe di Machiavelli non è l’uomo solo al comando (come in gergo si suole dire), ma il politico accorto e lungimirante, consapevole dei rischi di una deriva populista della democrazia, il quale governa con l’ausilio di una classe dirigente leale e preparata, formatasi nelle istituzioni (magari, nel Novecento, attraverso i grandi partiti di massa) e che per questo risulta aliena alla macchina che è chiamata a condurre. Contrapposta a questa idea della politica è quella del Leviatano di Hobbes, il mostro marino che sorge dagli abissi per porre ordine al caos delle umane contese: che per impedire il bellum omnium contra omnes impone a tutti l’autorità di un singolo.
Nel secolo delle masse, il leviatano moderno si appella direttamente al popolo e, legittimato dal consenso, rompe l’equilibrio dei poteri. Nell’esercizio del governo, là dove il principe è freddo e calcolatore – volpe e leone al tempo stesso – ma anche rispettoso delle leggi (perché vincolato a ciò dall’assetto istituzionale), l’uomo solo al comando finisce per farsi guidare dal suo istinto, dal fiuto, e per questo a volte compie scelte impulsive o irrazionali. L’Italia oggi ha bisogno di un principe e non di un leviatano. Perché solo una politica lungimirante e un’intera classe dirigente adeguatamente attrezzata possono avere le competenze e la forza per riformare il sistema, in particolare l’apparato burocratico-amministrativo, come risalta anche dalla breve storia della Seconda Repubblica. E perché le regole si riescono a cambiare o rinegoziare solo conoscendo le regole (italiane e europee).
Benefici evidenti
Visto in questa luce, il cammino dell’Italia unita non inizia sotto i migliori auspici. Si apre infatti con la morte di un principe di straordinaria levatura e grandi premesse: il conte di Cavour. Seguirà un periodo non facile, e l’impressione che la nuova classe dirigente dell’Italia unita non sia stata all’altezza delle pur complicate sfide da affrontare. Poi però, nell’avvicendarsi delle fasi storiche, più volte, per fortuna, quel principe e quella classe dirigente in grado di compiere scelte lungimiranti, non semplici, siamo riusciti a trovarli: prima con Giolitti e Nitti, poi dopo la Seconda guerra mondiale con qualche figura di riferimento, e forse ancora negli anni Novanta del Novecento; i benefici sono stati evidenti, specie quando l’azione riformatrice è riuscita a protrarsi nel tempo. Ma non è casuale il fatto che, anche le più solide fra quelle esperienze (l’età giolittiana e il miracolo economico), per poter sopravvivere si siano spesso dovute basare su pratiche clientelari, piuttosto che sul libero esercizio del diritto di voto. Anche quando è riuscita a cogliere importanti traguardi, la democrazia italiana è sempre stata deficitaria. E nemmeno appare una coincidenza, infatti, che noi abbiamo conosciuto anche il leviatano: uno indubbiamente autentico (Mussolini), anche se in forma più attenuata rispetto alla Germania hitleriana; uno o due che ne ricordano da vicino molte caratteristiche (Berlusconi e forse anche Crispi). Dalla storia economica che abbiamo ricostruito, emerge credo con una certa chiarezza come – pur nella diversità delle epoche e dei contesti – la loro azione di governo non sia stata positiva. È forse il caso di aggiungere che in Italia la figura del leviatano ha affascinato non soltanto settori consistenti del corpo elettorale, ma anche una parte vitale della cultura alta e delle stesse classi dirigenti: basti pensare al discredito che ha accompagnato l’operato di Giolitti, diffuso tanto fra gli intellettuali di sinistra (troppo acriticamente influenzati dal giudizio di Salvemini) quanto negli ambienti della borghesia e del nazionalismo; o all’attrazione che il pensiero di Hobbes ha esercitato sui filosofi della politica (anche quelli liberali), ben singolare destino per la patria di Machiavelli.
Vale però la pena di concludere con una nota di tenore diverso. Fin qui si è parlato di questioni italiane e della sua classe dirigente, nazionale e locale (…) Ma già da qualche anno e ancor più per il futuro – e per la storia che si scriverà tra qualche decennio – il problema da porsi non è più solo quello della classe dirigente italiana. La nuova generazione di politici che di recente si è affacciata sulla scena del potere verrà giudicata in base a se e quanto saprà farsi, assieme a quella degli altri paesi dell’Unione, classe dirigente europea. A meno, naturalmente, di non voler abbandonare o rompere la costruzione comune per tornare a una piena sovranità nazionale (anche questa, però, altro non sarebbe che una scorciatoia demagogica, da leviatano). Al contrario, saper mettere questa conquista epocale che è l’Europa in condizioni di funzionare, con modalità pienamente democratiche e rappresentative, sino a fare delle sue istituzioni la fucina di una nuova cittadinanza cosmopolita, e magari un modello anche al di là dei confini del Vecchio continente: questa appare la più importante e bella sfida che gli italiani possono contribuire a vincere.
È una sfida di enorme complessità, che richiede grande lungimiranza e competenze, maggiori di quelle che, in passato, sono servite a realizzare l’edificio nazionale. Su di essa si giocano le future possibilità di benessere per l’Italia.
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- Brano tratto dal libro dell’autore “Ascesa e declino. Storia economica d’Italia”, pubblicato da Il Mulino, Bologna, anno 2018 (pagg. 364-366).
Emanuele Felice insegna Economia all’Università G. d’Annunzio di Pescara. Autore documentato e di stile raffinato, ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra cui si ricordano Divari regionali e intervento pubblico. Per una rilettura dello sviluppo in Italia (2007), Perché il Sud è rimasto indietro (2014) e Storia economica della felicità (2017).
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