L’ECCESSIVA E IRRAGIONEVOLE EUFORIA DA RIPARTENZA
Covid 19: non è detto che siamo pronti, a livello emotivo e sociale, ad affrontare il ritorno alla normalità
Siamo pronti a ripartire dopo la pandemia? Una domanda alla quale la maggioranza delle persone risponde d’istinto in modo affermativo, addirittura con slanci entusiastici in molti casi. È davvero così? Sembrerebbe di no. Almeno, così sostengono numerosi studiosi e psichiatri, i quali hanno indagato a fondo gli effetti collaterali che questo periodo di vita reclusa può causare nella nostra mente.
Il primo grande problema in realtà sembra essere già in corso, ed è legato all’aver vissuto l’esperienza pandemica in modo traumatico, manifestando il cosiddetto disturbo post-traumatico da stress (Ptsd), con sintomi cronici o persistenti, che vanno da insonnia a incubi ed ansia: fino a un individuo su tre potrebbe soffrirne.
Come riportano molti quotidiani, Massimo Giannantonio ed Enrico Zanalda, co-presidenti della Società Italiana di Psichiatria, narrano da tempo che il disturbo da stress post-traumatico è un disturbo psichiatrico che può svilupparsi in seguito all’esposizione ad eventi traumatici così eccessivi da determinare uno sconvolgimento psichico. Tale disturbo non è un evento che si realizza immediatamente dal punto di vista clinico ma ha bisogno di tempo per costruirsi. Gli effetti sulle persone sono a lungo termine e talvolta cronici, ma dipendono anche dalla capacità del soggetto di adattarsi e affrontare le avversità. Se nella prima fase della pandemia abbiamo osservato un preoccupante aumento dei livelli di ansia, depressione e insonnia, lo stress persistente di una situazione di emergenza che dura da quasi un anno, senza alcuna certezza di uscirne a breve, rappresenta un evento traumatico cronico che è ancora in divenire ma di cui vediamo già gli effetti nel tempo, allargati alla popolazione generale.
Questo scenario non riguarda solo le persone che hanno contratto il virus e sono guarite ma coinvolge tutta la popolazione che in generale ha vissuto questa fase di sostanziale assenza dalla vita sociale, dai rapporti, dalle relazioni, anche affettive. Tutto ciò ha causato una sostanziale necessità di riadattarsi al contesto di reclusione, escludendo il prossimo e trovando rifugio presso le proprie mura di casa, sia lavorativamente, sia a livello personale.
Non è pertanto ragionevole, in realtà, accogliere in modo euforico il fatto che potremo “tornare a vivere normalmente” (posto che questo sia effettivamente possibile), perché dovremo nuovamente rimodulare il nostro modo di vivere e non è detto che il ritorno sia così facile da affrontare. Molti esempi semplici possono aiutarci a comprendere il rischio: pensiamo alla stretta di mano. Non siamo più abituati a stringere mani, ad esempio, abbiamo inibito questa pratica e saremo pronti a reinserirla in scioltezza? Oppure un banale abbraccio ad un amico, dal quale si genera empatia nel dialogo. Anche questo comportamento è stato eliminato dalla nostra testa.
Il rischio che corriamo è quello di esserci abituati a questa vita sociale e quindi non potremo semplicemente “girare la chiave” per ritrovarci con gli stessi comportamenti sociali di un anno e mezzo fa. Non sarà così. Per lo meno, non lo sarà per tutti.
In conclusione, il malessere psichico dilagante legato alla pandemia, le incertezze socioeconomiche ad essa riconducibili e anche la durata prolungata della stessa con la consapevolezza di dover convivere a lungo con il virus vanno prese in carico subito, con tutti i mezzi a nostra disposizione, compresa la telemedicina, pena il rischio di trovarci a breve di fronte a un boom di nuove diagnosi di disturbo post-traumatico, che a sua volta può compromettere anche la salute fisica delle persone. Sarà pronto il governo, attraverso anche i fondi del Recovery Fund, ad affrontare questa minaccia sociale?
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