Andrea Langhi

ARCHITETTO LANGHI: NON CREDO NEL “NULLA SARÀ PIÙ COME PRIMA”

L’esperienza che creano i locali – stare bene inseme, trascorrere dei momenti di serenità e divertirsi – sarà desiderata sempre, magari in modi che rispettino la “nuova normalità”.

Per Andrea Langhi, architetto, un locale, bar, ristorante, discoteca, non sono solo immobili da arredare, bensì l’arredamento deve trasformarli in un’immagine accogliente, ove l’estetica viene coniugata in molteplici espressioni: il cliente deve trovare un po’ la propria Camelot, un luogo esclusivo dove il piacere di stare in compagnia avvolge l’avventore come un delicato mantello di raso. Ma ciò che sta a cuore all’architetto è il fatto che “prima di essere un bar, un ristorante, un lounge, una bakery o una discoteca, un locale pubblico sia principalmente un’attività economica, che deve quindi vendere un “prodotto” ad un “pubblico di riferimento”.

“Per questo io considero il mio design non solo sotto l’aspetto estetico, ma come un potente strumento di marketing e comunicazione.”

Tra i suoi lavori ci sono Biblos, Eleven Club Room, Terraza Duomo 21, The Fisher, El Carnicero, Botega Cafe Cacao. Nel 2019 è stato premiato come Best Pratice Restaurant Design dal Food Community Award. Andrea Langhi è docente del Master “HoReCa Workshop” e dei corsi “Hotel Labos – Architettura & Marketing”, organizzati con la Milano Business School. I suoi progetti sono stati pubblicati in riviste e libri internazionali, collabora con riviste specializzate con articoli sul design nei locali publici. L’affermato architetto milanese condivide la sua ricerca di idee nuove post Covid – 19.

Andrea Langhi, El Carnicero a Milano, Il Diavolo l’Acqua Santa a Como

Cosa ha significato, nella sua attività creativa, la pandemia?

“Principalmente uno stop forzato, non tanto per la capacità lavorativa, perché avremmo potuto tranquillamente continuare a lavorare da casa come facciamo abitualmente anche da prima del lockdown. Lo stop c’è stato perché ci si è resi conto di essere tutti collegati in qualche modo. E quindi anche se si lavorava in un settore non colpito direttamente, in realtà le conseguenze erano per tutti. In altre parole, il fatto che i locali fossero chiusi, che la gente non uscisse più, che si continuasse a parlare di crisi e di fine dei ristoranti in favore del delivery, rendeva inutile anche continuare a lavorare su progetti che al momento non potevano vedere la luce”.

Dal suo “osservatorio”, dal suo studio, come ha visto modificarsi la vita?

“All’inizio ho percepito sconcerto, paura e pessimismo. Tutte reazioni naturali di fronte ad un evento così incredibile. Poi da subito si sono delineate due chiare visioni: una caratterizzata da pessimismo, da “nulla sarà più come prima”, da “cambierà il mondo“; un’altra fatta di moderato ottimismo, di consapevolezza dei propri mezzi e della capacità di reagire. Io ho prediletto la seconda.
Ho visto miei clienti dapprima demoralizzati dal non poter più esprimere il loro valore e le loro capacità, preoccupati del futuro della loro azienda, iniziare a darsi da fare a cercare nuove vie, nuovi modi per mantenersi vivi e attivi. E poi una ricerca di nuove idee o di nuovi punti di vista. Io in questo ho cercato di fare la mia parte.
In mezzo a visioni apocalittiche tra plexiglass, maschere guanti, scenari da fine del mondo, ho provato a essere propositivo, come credo ci si aspetti da uno che fa un lavoro creativo.
Ho realizzato un video con alcune idee, ho scritto dei post e degli articoli e ho cercato di delineare un futuro possibile senza essere catastrofico”.

La sua capacità espressiva ha subito contraccolpi?

“Una accelerazione direi. Ho iniziato a guardare anche in altre direzioni, a esplorare concetti nuovi, a pormi domande diverse per poter avere risposte nuove. Ma non è diverso da quello che ho sempre fatto. Forse con tempi più lunghi e non sotto la pressione di un evento imprevisto”.

Cosa la ispira nelle sue realizzazioni?

“Io ho sempre pensato che i locali che progetto abbiano l’obiettivo di fare stare bene le persone, far loro trascorrere dei momenti di serenità, farle divertire, renderle felici. Ovviamente io mi occupo dello spazio fisico, ma è proprio questo che fa la differenza. La ristorazione non è ordinare il cibo e farselo portare a casa. Quella è gastronomia.

Il cibo può anche essere buonissimo e il delivery impeccabile, ma rimane un’altra cosa. Il ristorante è un’esperienza che deve essere vissuta all’interno di un luogo per sperimentarne completamente il senso. E credo che non sia sostituibile. Anzi penso che le persone la desidereranno sempre, magari in modi differenti, ma non completamente.

Per questo sono sempre stato ottimista sul futuro della ristorazione e sul futuro e sul valore del lavoro che i progettisti come me sono chiamati a svolgere. Creare modi, spazi, ambienti in grado di far vivere un’esperienza alle persone soddisfacendo il loro desiderio di bellezza, di stupore, di socialità. Anche convivendo con una minaccia reale come quella del virus, adattandosi e prendendo le precauzioni necessarie”.

Oggi, con calma e (poca) prudenza si cerca di tornare a vivere, quella vita che lei sa far esaltare nei locali per i quali realizza le sue creazioni. Qual è il suo messaggio per coloro che cercano di riprendersi.

“Oggi che si sta cercando di trovare una nuova normalità, mi sono reso conto che le mie aspettative si stanno realizzando. Da un lato l’ottimismo è ritornato, gli imprenditori hanno di nuovo voglia di aprire e sviluppare, le persone hanno ritrovato il desiderio e il piacere di uscire dopo mesi di forzata chiusura.

Dall’altro lato la capacità di adattamento ha reso tollerabile persino le mascherine, che ormai tutti portano con disinvoltura, e che diventano quasi un accessorio, così come i temuti divisori o protezioni o sanificazioni: in realtà sono molto più discreti e accettabili di quanto ipotizzato all’inizio della pandemia.

Forse ci siamo abituati a qualcosa che ci pareva incredibile mentre ora fa parte della nostra quotidianità. La capacità di adattamento è la più grande forza per affrontare le difficoltà e superarle.

Non per niente una delle mie frasi preferite è: “L’unica paura che resta del futuro, è di non esserci”.

www.andrealanghi.it

 

 

ALTRE INTERVISTE CON ANDREA LANGHI >>

 

 

 

Condividi
Share

Commenti

be the first to comment on this article

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Vai a TOP