Per Trump è sempre e comunque America first Quella dei dollari

Ormai è allarme rosso. La “nomina” di Gerusalemme a capitale d’Israele da parte del presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha generato un disastroso effetto domino: alle reazioni di Abu Mazen, presidente della Palestina, e di Hamas – con orti e feriti negli scontri – si sono aggiunte quelle interne agli Usa, all’Onu – il principio di non ingerenza negli affari dei singoli stati è ormai del tutto ignorato – e in ambito internazionale.

Fra le reazioni più dure, quelle dell’ex presidente Barak Obama: intervenuto a un incontro all’Economic Club di Chicago, pur senza menzionarlo, Obama ha paragonato Trump a Hitler e ha sollecitato gli americani a vigilare sulla tenuta della democrazia. Un appello tanto forte quanto del tutto inusuale nel Grande Paese.

L’ambasciatrice americana all’Onu, Nikki Haley, ha accusato le Nazioni unite di ostilità nei confronti di Israele. La considerazione incauta, pur corretta nello sguardo di profondità in quanto l’Onu non si è mai occupato con decisione del tanto auspicato processo di pace in Medio Oriente, si affianca al “disaccordo” dichiarato dagli ambasciatori Onu di Germania, Francia, Svezia, Gran Bretagna e Italia. Ma arrivano dei “no” anche da Arabia Saudita, Giordania e Turchia. La Russia segnala la pericolosità della discontinuità nel processo di pace… E via di questo passo Non bastavano i missili e le minacce del dittatore nord coreano Kim Jong-un a generare motivate preoccupazioni, anche Donald Trump ha voluto agitare il panorama internazionale, con il plauso quasi incredulo di un sorridente primo ministro di Israele, il nazionalista Benjamin Netanyahu.

Trump non è un politico, è un ultra nazionalista per il quale conta solo un motto: “America first”. Non gli importa nulla dei trattati siglati da chi l’ha preceduto – quello verso Obama è autentico odio politico -, mal sopporta incontri con esponenti di riferimento di altri Paesi se non c’è un tornaconto per gli Stati Uniti: al G7 del maggio scorso a Taormina ha tenuto un atteggiamento persino scostante, infastidito dalle considerazioni sul clima, mentre è apparso quasi ossequioso ai primi di novembre al cospetto di Xi Jinping. Il profumo dei dollari…

Oggi, la questione di Gerusalemme. Vero è che era una delle promesse fatte in campagna elettorale, così come è vero che tale promessa era stata fatta da Bill Clinton, George W. Bush e da Barak Obama, ma è un percorso da intraprendere con raffinata diplomazia. Gerusalemme è la città santa per definizione, la città ove convivono le tre grandi religione monoteiste – cattolicesimo, ebraismo, islam -, un autentico mosaico di siti e simboli rispettai da tutti (si pensi al Muro del Pianto). Trump ignora il significato stesso di diplomazia: incalzato da un’inchiesta sempre più sgradevole per lui, dopo le dichiarazioni dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn che ha ammesso di aver mentito in merito ai contatti con la Russia durante la campagna elettorale, inchiesta che può sfociare nell’impeachement, ecco quello che appare come un coup de théâtre più che una scelta meditata e analizzata con la massima cura. Qualche ambasciatore Onu ha sottolineato il fatto che una decisione come quella di stabilire che Gerusalemme è capitale di Israele “deve essere frutto di un negoziato”. Questo negoziato, come sottolineato prima, non si è mai avviato, cosa che non depone a favore delle Nazioni Unite, ma da qui a un annuncio unilaterale di questa portata è un avvenimento deflagrante in ogni senso in questa area in cui palestinesi e israeliani si fronteggiano da decenni senza che sia stata trovata una soluzione di pace duratura e credibile.

Trump va avanti per la sua strada, insensibile e distante da quella che dovrebbe essere una cauta lettura di ciò che agita lo scacchiere internazionale. Ma per lui America first, e si diletta con i dollari. Kim Jong-un con i missili.

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